Tra i professionisti si trovano anche 420 pittori con un reddito medio di 45 milioni, mentre gli scultori sono solo 134 (ma guadagnano in media 9 milioni in più).
(La Repubblica, mercoledì 12 agosto 1992, pag. 41)
Verrebbe la voglia di dire, iniziando un articolo come questo, che la nuova arte italiana non esiste ancora.
(Gregorio Magnani, “The Scene of Absence – A New Generation of Italian Artists”, Arts Magazine, April 1989, pag. 55)
Si è riunito a Londra un gruppo di antropologi provenienti da tutto il mondo allo scopo di stabilire una volta per tutte la nazionalità di Gesù Cristo. Dopo due settimane di intenso dibattito gli studiosi sono giunti unanimamente alla conclusione che il Cristo non poteva essere altro che italiano. Tre le prove: 1) Solo un italiano vive con la madre fino a trentatrè anni; 2) Solo un italiano può essere convinto che la propria madre sia vergine; 3) Solo la madre di un italiano può credere che il proprio figlio sia un Dio.
In questa barzelletta anonima riposano grosse verità e se ne nascondono altre. Gesù doveva essere quindi un artista. D’altronde, gli artisti italiani da sempre hanno una dimensione allo stesso tempo spiritualmente storica e concretamente simbolica. Una dimensione in cui continuano a identificarsi, apparentemente, tutt’oggi. Non ci scandalizziamo se l’Egitto o la Grecia non offrono giovani artisti contemporanei ogni cinque o sei anni, ma l’Italia è una potenza industriale e da lei si pretendono nomi nuovi capaci di trovare un posto nello scacchiere delle arti visive occidentali. Una pretesa che, con molta difficoltà, viene sempre soddisfatta. Ma soddisfare le pretese del mondo contemporaneo rimane per l’artista italiano un problema complesso.
L’Italia è sì una potenza industriale ma la sua struttura produttiva rimane ancorata all’idea della famiglia. L’ultima generazione di artisti contemporanei in Italia, in possesso di un capitale intellettuale notevole, è stata risucchiata da questo concetto, “la famiglia”, capace di attraversare la traumatica metamorfosi storica dell’ultimo trentennio senza indebolire i propri poteri vincolanti e parzialmente propellenti. Sempre meno il giovane artista deve confrontarsi con situazioni traumatiche o dirompenti all’interno del proprio ambiente sociale, e sempre più spesso un contesto ristretto arriva a offrire un consenso e un sostegno economico estremamente vasti. Non è un caso che i movimenti artistici italiani capaci di infrangere i confini internazionali siano nati in momenti in cui le strutture borghesi imperniate sulla famiglia venivano attaccate o ridefinite. L’Arte Povera nasce alla fine degli anni Sessanta nel momento storico in cui la maggior parte dei valori sociali venivano sgretolati. Gli artisti della Transavanguardia sono cugini di un trauma e tutti, chi più e chi meno, ne hanno assimilato le conseguenze. Dopo questi scossoni l’arte contemporanea in Italia ha germogliato su un terreno di diffusa opulenza, all’interno di un paesaggio familiare rinnovato e aggiornato.
Il fare arte in Italia ha sempre significato immergersi nella Storia, come diceva il critico Roberto Longhi, in un flusso coerente da Cimabue a Morandi. Così è stato da sempre e pochi sono gli artisti capaci di svincolarsi dall’immensa famiglia dell’arte italiana. Chi vi è riuscito, Manzoni e Pascali ovviamente, lo ha fatto attraverso un contatto con elementi poco contemporanei, come un certo naturalismo, un cinismo aggravato o un umorismo imbevuto di falsa modestia, quasi a svincolarsi mentalmente dalla serietà di una Storia che non ti molla.
Un altro guaio che i più giovani artisti si ritrovano fra le mani è il ruolo giocato dai loro padri più vicini. Da una parte Merz, Kounellis & C. e l’abuso che hanno fatto della propria dimensione ideologica; dall’altra Clemente e compagni col loro peso economico stravolgente. Inoltre, la dimensione degli artisti italiani apparsi su di un orizzonte internazionale negli ultimi trent’anni si è ingrandita sproporzionatamente in rapporto all’espansione della loro influenza artistica. La scarsa mobilità dell’arte italiana e il faticoso rigenerarsi vanno di pari passo al gigantismo a cui si sono abbandonate figure un tempo stimolanti. Non è un caso che dei poveristi il più attraente sia rimasto Fabro, uno dei pochi, se non l’unico, a dedicarsi all’insegnamento in un’accademia d’arte italiana. Per quanto “carisma” sia una parola pericolosa che spesso sconfina nella dittatura, la nuova generazione manca di una figura carismatica capace di spingerla intellettualmente. I modelli a cui riferirsi sono anacronistici o fanno parte di quella baronia che controlla i pochi spazi d’arte contemporanea della penisola. Non è un caso che la Germania con Beuys, e un sistema di accademie frequentato da figure attive dell’arte contemporanea, abbia sempre prodotto figure di rilievo internazionale che a loro volta si sono inserite nel sistema d’informazione culturale tedesco. In Italia questo appare tutt’ora impossibile e il circuito d’informazione intorno all’arte contemporanea è difatti a tenuta stagna. Una diga di critici, più o meno giovani, crea, da sempre, un sistema di mostre labirintico che si dissolve sull’intero territorio nazionale. Avventurarsi per l’Europa o attraversare l’oceano non è uno dei vizi capitali del critico italiano, e la lingua italiana rimane spesso l’unica lingua straniera a sua disposizione. Questo immobilismo teorico e una certa negligenza nell’adeguarsi a un linguaggio comune ha prodotto nel tempo un lessico ufficiale in stato di decomposizione che tuttavia i più autorevoli quotidiani nazionali non esitano a utilizzare. Intellettuali una volta attivissimi nel dibattito contemporaneo, approdati nelle viscere di una testata nazionale, lo hanno tramutato in qualcosa di paleozoico e corrotto. Operare su questo panorama significa, per un artista di buona volontà, scontrarsi con santoni cavernicoli in possesso di un’enorme quantità di potere informativo capace d’infiltrarsi nelle timidezze di un collezionismo di provincia ricchissimo, sul quale si può sviluppare un numero inimmaginabile di artisti minori. Nonostante quest’enorme zavorra, un gran numero di collezionisti al dettaglio in Italia ha però trovato la forza di rompere i vincoli di una stampa ignorante. Proiettandosi su prospettive più ampie ha potuto, negli ultimi anni, espandersi a livello regionale e nazionale in modo unico per un paese dalle dimensioni dell’Italia, producendo ricchezza che fino a pochi anni fa pareva impossibile. Ma paradossalmente, questo vantaggio ha finito per ritorcersi sugli artisti stessi, divorandone gran parte delle risorse di adrenalina. Si è testimoni quindi di una grande produttività creativa che però si sviluppa principalmente attraverso episodi, perdendo di vista l’idea di “progetto”. E l’episodio sopravvive grazie ai propri limiti, mentre il progetto ha in sé il potenziale per espandersi dentro un contesto internazionale, l’unico a cui un artista contemporaneo dovrebbe riferirsi se vuole tenere attivo un sistema culturale.
Il perché l’ultima generazione di artisti italiani sembra essersi arenata in quello che pareva ed è un enorme potenziale creativo va ricercato proprio dentro la Transavanguardia, della quale, si ha la sensazione, non molti hanno afferrato il vero punto di rottura. Ciò che è stato mutuato da quel fenomeno sono stati la zavorra storica e il regionalismo, elementi marginali; mentre pare non essere stata focalizzata l’importanza della breccia che i nuovi pittori hanno aperto nel sistema economico dell’arte contemporanea americana. Non si comprende del tutto che la Transavanguardia ha veramente concluso e reciso quel fiume che da Cimabue, imperterrito, continuava a scorrere. L’Arte Povera non c’era riuscita. Ma anziché farsi carico dell’azzeramento finalmente prodottosi ed ereditato, la generazione seguitane ha invece assaporato i frutti di quella pianta rimuovendo i rischi. E questa rimozione pare aver lentamente inaridito il discorso artistico italiano.
Non si trovano artisti italiani a Colonia, pochi credo a Parigi, e quelli che vagano a New York spesso ricercano con disperazione di ricomporre la famiglia perduta e non trovandola si disperdono in una nostalgia patetica. Cullati dall’ambiente che li ha allevati, gli italiani si muovono ma non si spostano, nel timore di essere a loro volta rimossi o peggio ancora dimenticati.
Certo l’arte contemporanea italiana esiste, ma non trova la forza di “consistere”. E dell’inconsistenza sono principali artefici gli artisti, nonostante i fiumi di lacrime fatti scorrere sull’inefficienza delle istituzioni o sulla titubanza delle gallerie. Ma mentre istituzioni e gallerie riflettono la complessità di un sistema economico infangato, gli artisti attingono da e sopravvivono grazie a un sistema di cultura assistenziale. Il giovane artista che ha la fortuna di essere cittadino italiano è mostrato, pubblicato e collezionato più di ogni altro al mondo. Ma la sua penetrazione nel sistema internazionale dell’arte contemporanea è frenata principalmente dalla sua stessa impermeabilità a una serie di trasformazioni globali che il ruolo dell’artista ha attraversato. L’arte contemporanea italiana viaggia su una mongolfiera, anacronismo di per sé, ma su di essa continuano a essere caricate la poetica dei materiali, il gusto del colore, il concetto dell’opera, la qualità della vita. Allora, se per “qualità” della vita intendiamo i paesaggi toscani, le Alpi innevate e la pasta fumante a mezzogiorno, non possiamo che esser d’accordo. Ma se, oltre a tutto questo e al suo peso nella memoria genetica di un individuo, intendiamo per qualità una visione che si apra alla trasformazione del mondo al di là dei confini della propria terra, capiamo meglio di cosa l’arte contemporanea in Italia abbia bisogno.
Ripescato da Ginsberg in Marocco, in uno stato di allucinata prostrazione mentale, William Burroughs chiarì quel momento come un estremo tentativo di cancellare tutto quello che la propria educazione gli aveva insegnato. Tentare di polverizzare i passaggi della propria cultura, abbandonarli, senza timore, nella coscienza che, dopo tutto, è impossibile non aver vissuto la propria storia. Un passaggio obbligato, un passo esterno che consenta di entrare in un processo di trasformazione ormai avviato.