My body is a cage è il titolo dell’ultima traccia nell’album Neon Bible degli Arcade Fire, uscito quindici anni fa. La canzone è un inno alla diversità dei corpi, spesso non accettata socialmente, che trova riscatto attraverso la possibilità di evadere con l’immaginazione. Dal 2007 performance, pubblicità e serie TV, tra cui l’osannata Euphoria1, hanno utilizzato il brano come manifesto per un corpo che esce dalla propria gabbia, fatta di categorie e classificazioni, che esplode in una danza di libertà e emozioni – “My body is a cage That keeps me from dancing with the one I love …”2. Sono tornato a canticchiare la canzone durante la mia visita a Venezia nei giorni di apertura della 59a Biennale d’Arte e ho deciso di farmi guidare da questa musica che riaffiora dal passato ma sembra più viva di allora: proprio come quando in discoteca mettono uno dei tuoi pezzi preferiti che non sentivi da tempo, ma che torni subito a ballare in modo sfrenato, con un corpo che sembra non avere una forma dimenandosi in svariati movimenti scomposti. La mostra “Il latte dei sogni”, a cura di Cecilia Alemani, si struttura – nel Padiglione Centrale dei Giardini e all’Arsenale – proprio attraverso delle capsule temporali che costruiscono ponti tra presente e passato, in cui il corpo sembra l’elemento centrale attorno al quale si dipanano le relazioni con il mito, la poesia, la scrittura, il linguaggio, la natura, la tecnologia. Nelle opere e negli statement curatoriali di questa edizione della Biennale il corpo è soggetto specifico da cui scaturiscono immaginari, visioni e sogni che affermano che la realtà e i suoi codici non sono validi per tutti. La dimensione onirica e il suo portato rivoluzionario sono presenti a partire dal titolo della mostra e i sogni di cui si parla non sono in opposizione al reale ma ci parlano della realtà, così come il corpo non è slegato dalla mente che produce l’immaginazione. La relazione tra corpo e mente è uno scambio continuo e se il corpo è alla base dell’esperienza, la mente può essere la chiave per evadere dalle convenzioni sociali e rifuggire dalla costruzione di un’identità immobile e chiusa in se stessa.
Le relazioni tra corpo e mente, con una particolare attenzione a quest’ultima, sono centrali anche in tre progetti espositivi presenti a Venezia, al di fuori dei Giardini e dell’Arsenale: nella mostra “Human Brains: It Begins with an Idea” alla Fondazione Prada nel progetto Vampires in Space di Pedro Neves Marques a Palazzo Lucarini, sede del Padiglione del Portogallo e nell’installazione permanente Something Out of It (2022) alla Casa di Reclusione della Giudecca orchestrata da Pauline Curnier Jardin.
“Human Brains: It Begins with an Idea” è un progetto (tappa del percorso di ricerca sulle neuroscienze intrapreso dalla Fondazione Prada dal 2018) a cura di Udo Kittelmann in collaborazione con l’artista Taryn Simon. Gli spazi storici di Ca’ Corner della Regina diventano un labirintico sistema museale dove sono esposti più di centodieci oggetti relativi allo studio del cervello e alla sua trasposizione scientifica, filosofica, letteraria e visiva. Sono oggetti appartenenti al passato, spesso riconducibili al rapporto tra mente e corpo che ha marcato la storia dell’umanità creando paradigmi culturali sia in Occidente che in Oriente. Gli oggetti racchiusi nelle teche sono distanti a livello temporale dall’esperienza del visitatore che viene però chiamato a riattivarli attraverso uno stratagemma altamente performativo: trentadue autori e autrici internazionali sono stati invitati a scrivere testi che rivelano la portata sociale, politica o personale dei manufatti esposti, aprendo la presenza dell’oggetto a una narrazione che va al di là della contingenza storica. I testi, presenti anche nel libretto di sala, sono mostrati attraverso dei brevi video in cui si vede George Guidall, famoso narratore di audio libri, mentre li interpreta all’interno di un set color salmone. Attraverso la registrazione video, la performance del narratore persiste oltre l’evento e instaura una relazione tra l’oggetto, le diverse narrazioni lette da un unico attore e l’ascolto che, con la presenza attiva del corpo del visitatore all’interno dello spazio espositivo, apre a ulteriori e infinite interpretazioni. Il tutto sembra esplicitare che tra gli esseri umani non esiste un cervello identico a un altro e che i nostri corpi sono portatori di memoria, sogni, immaginazioni che a loro volta influenzano la nostra percezione differenziandola e rendendola unica.
A ribadire la diversità compositiva presente nel nostro cervello, la cui struttura sembra rispecchiare l’eterogeneità del mondo e delle esperienze in cui viviamo, il piano superiore della mostra ospita The Conversation Machine: un’istallazione composta da trentadue video in cui alcune interviste sul tema del cervello umano condotte da neuroscienziati, psicologi, neurolinguisti e filosofi sono orchestrate in una polifonia di voci, gesti, linguaggi ed espressioni che difficilmente possono essere razionalizzate, ma manifestano come il limite umano della conoscenza possa aprirsi al caos.
Anche l’artista Pedro Neves Marques nel suo progetto per il Padiglione del Portogallo, a cura di João Mourão e Luís Silva, parte dai limiti dell’umano e utilizza, sotto falsa copertura, lo stile del cinema fantastico e horror per parlare di corpi che evadono dall’umano (“troppo umano”3) pianeta Terra per vagare nella notte eterna dello spazio. La notte è il regno de* vampir*4 che un tempo erano umani e che proprio nell’oscurità dello spazio trovano la possibilità di rievocare con melanconia le loro vite precedenti aspirando a un futuro su un altro pianeta. Si tratta di corpi in transito sia spazialmente che intimamente; sono corpi transgender, non binari che si situano al di fuori dei codici sociali e non si riconoscono nelle categorie umane, ma continuano a confrontarsi con sentimenti e esperienze umane in quanto tracce della loro esperienza. La condizione in transito è una condizione personale che l’artista condivide con i personaggi di sua invenzione e con il team di performer chiamati a interpretarli5. All’interno delle stanze di Palazzo Lucarini Vampires in Space si struttura attraverso una grande installazione filmica su tre canali che comprende anche un complesso sistema espositivo6 in cui le architetture del set cinematografico, ovvero i resti della navicella spaziale, vengono infiltrate con fogli contenenti poesie. La trasformazione del luogo e le scelte registiche – che, ad esempio, nel video della stanza centrale richiamano una visione in livestream in cui i protagonisti sembrano indirizzare i racconti dei propri sentimenti direttamente verso la camera/ spettatore –, sono coadiuvate dalla colonna sonora composta da HAUT producendo un’esperienza immersiva che genera una forte empatia tra il visitatore della mostra e la condizione di solitudine e confinamento de* vampir* in orbita nello spazio cosmico.
Se nel lavoro di Pedro Neves Marques i temi del reale strutturano la narrazione della finzione cinematografica, nel progetto Something Out of It di Pauline Curnier Jardin accade l’opposto: si parte da una condizione reale per generare altre possibilità. L’artista – chiamata dalla curatela di Francesco Urbano Ragazzi per presentare a Venezia il LIAF – Lofoten International Art Festival – è stata commissionata dalle detenute della Casa di Reclusione femminile a realizzare nel parlatorio un’installazione permanente composta da un grande murales – prodotto attraverso dei workshop con artisti locali – e da un video che narra la storia
di questa stanza, suggerendo possibili evasioni mentali. Una parte del carcere, situato nell’isola della Giudecca, viene aperta momentaneamente ai turisti dell’arte rispettando tutte le procedure adeguate: solo i corpi possono entrare lasciando all’entrata ogni oggetto in grado di collegarci con l’esterno. Si tratta di un vero e proprio rituale che da accesso al luogo “altro” del parlatoio e permette al visitatore di entrare in una diversa condizione dell’essere. La Casa di Reclusione è una struttura notevole: nel 1500 era un convento delle Convertite – suore provenienti da un passato peccaminoso spesso collegato ai piaceri carnali – e arrivò ad ospitare fino a quattrocento donne, mentre attualmente si contano sessanta detenute. Attraverso visioni evocative, il video ci racconta come il parlatorio, postazione in cui le donne attualmente ricevono visite stabilendo un momentaneo contatto tra il fuori e il dentro, fu un tempo utilizzato come palcoscenico in cui le suore performavano per le loro famiglie e le autorità veneziane, indossando vestiti profani e sospendendo per un instante le regole della vita monastica. In questo luogo di confine si percepisce come i nostri corpi possano essere “ingabbiati” per motivi di classe, genere, nazionalità e altre condizioni sociali che influiscono sull’esperienza personale.
I progetti artistici qui menzionati si configurano come “la chiave per aprire la gabbia” in cui si trova chiuso il nostro “corpo- collettivo” e dichiarano come, attraverso la mente, sia possibile perdersi nel latte dei sogni, viaggiare nel tempo della storia, immaginare vampir* che navigano nello spazio cosmico o evadere dalla condizione di reclusione tanto quanto immedesimarsi in essa. L’esperienza di questi viaggi non è un semplice allontanamento dal reale, ma la possibilità di raggiungere una maggiore consapevolezza dei nostri corpi al fine che questi possano evadere dalle proprie gabbie per ballare, rispettandoci e ascoltandoci vicendevolmente.
My body is a cage That keeps me from dancing with the one I love … But my mind holds the key7.