Solakov è tanto apparentemente giocoso e spontaneo quanto esigente rispetto alla tenuta formale dei propri interventi. La sua opera è legata a un senso di esperienza individuale e a pensieri intimi, di carattere autobiografico, talvolta addirittura sentimentale, ma sempre temperati dal carattere demistificante; prende le forme più varie, e si caratterizza per la frequente presenza di annotazioni scritte; stimola un senso di condivisione immediata da parte di chi guarda, ma nello stesso tempo abbraccia tematiche di ampio respiro, e tiene sempre conto della relazione tra il contesto reale e il modo in cui questo influenza le vicende e l’operare dell’artista. Con spirito poetico, ma mordente, Solakov arriva così a smantellare cliché e a demistificare il pensiero precostituito.
Gabi Scardi: Il tuo lavoro è stratificato, a volte volutamente ambiguo; combina fantasia, favole, riflessioni intime e altre riguardanti il contesto allargato. Finisce così per costituire un commento sulla realtà e sul tempo che viviamo.
NS: Infatti, la mia vita costituisce una parte importante di ciò che faccio, poi ci sono le storie che invento. Utilizzo qualsiasi strumento espressivo per arrivare a raccontare ciò che voglio. Ogni strumento corrisponde al soggetto con cui, di volta in volta, mi voglio rapportare. Un’altra cosa che tendo a fare ampiamente, soprattutto in questo periodo, è combinare storie vere con altre, finzionali, intrecciando le une e le altre fino a rendere difficile individuare il confine tra i due piani.
GS: Mi viene in mente l’opera Archive: in quel caso l’impressione era che la tua vita personale si intrecciasse con il destino collettivo del paese in cui vivevi.
NS: Già, invece l’archivio in questione non conteneva documenti autentici. Poteva però ingannare. E infatti, da quell’opera, molti hanno dedotto che io sia stato coinvolto dai servizi segreti, ma non è così. Si trattava solo di un’opera d’arte. Questo è un tipo di ambiguità che ricerco. Così come mi piace che il lavoro risulti eterogeneo dal punto di vista visivo. Nella mostra che ho tenuto recentemente presso la Galleria Continua c’era un lavoro dedicato proprio a questa questione, The Golden Frame (A Rather Split (visually) Personality) — si tratta di un autoritratto incastonato all’interno di un’elaborata cornice dorata appositamente disegnata dall’artista. In questo caso mi sono messo alla prova sperimentando, nell’ambito di un unico quadro, tutti gli stili possibili: ho cercato di essere di volta in volta classico, modernista, barocco, rococo e così via. Va detto che oggi l’eterogeneità del mio lavoro mi aiuta. Ma non è stato sempre così. Fino a metà anni Novanta critici e curatori trovavano il lavoro interessante, ma troppo variegato, avevano l’impressione che lo si sarebbe potuto attribuire ad artisti diversi, e questo era vissuto come un problema. Oggi questa eterogeneità viene percepita diversamente, e mi trovo a poter fare ciò che desidero. Anzi, in una mostra di ampie proporzioni come la retrospettiva “All in Order, with Exceptions” la varietà ha aiutato, consentendomi di giocare su più piani e di evitare ogni monotonia. Un po’ come è poi avvenuto con tutte le mostre recenti, compresa quella tenutasi quest’anno a San Gimignano, che infatti comprendeva quattro diversi nuclei di opere. Oltre a A Rather Split (visually) Personality c’erano i venti quadri della serie “Paintings with No Texts”. La misura di queste opere è identica a quella di una serie che feci nel 1962. La differenza è che questi non vedono la consueta presenza di testi direttamente sul dipinto; alcune frasi sono invece inscritte sul lato destro di ciascun telaio, e corrispondono ai titoli dell’opera. Un altro intervento ancora che ho realizzato nell’ambito di “The Golden Frame” è The Nervous Artist, che consiste in una vicenda tutta testo, istoriata direttamente sul muro. E poi c’è l’installazione centrale della mostra, il video-racconto I Want Back Home (said the big frog), 14 vetrine e altrettanti video che attraverso immagini fotografiche, testi, appunti e registrazioni documentano le tappe di un viaggio durato 14 giorni, quello che ho intrapreso per prendere parte a una mostra presso il Rockbund Art Museum di Shanghai. Avendo paura di volare, ho deciso di raggiungere la Cina in treno, in compagnia di mia moglie… e di Joji, una rana giocattolo. Come vedi, seppur in scala minore rispetto a All in Order, si tratta di nuovo di questa eterogeneità, alla quale tengo molto.
GS: Come nascono le tue opere? Da una visione o da un’idea?
NS: So che può sembrare un cliché, ma a volte l’idea scaturisce così, già definita in sé … “oh this is the idea”; ti ricordi per esempio il mio intervento per la partecipazione bulgara alla 48ma Biennale di Venezia? Era il 1999. Si chiamava Announcement, consisteva in una cartolina su cui campeggiava la frase “dopo trent’anni di assenza tra i paesi che partecipano ufficialmente alla Biennale di Venezia, la Repubblica di Bulgaria è orgogliosa di avere cominciato a prepararsi a partecipare adeguatamente alla prossima edizione della Biennale di Venezia che avrà luogo nel 2001”; davvero, in quel caso, mi alzai una mattina con quest’idea: che per la Bulgaria non occorreva denaro, né spazio, che bastava esporre una cartolina. Altre idee si sviluppano progressivamente. Comunque è raro che io parta con un piano definito a priori. E non lo faccio mai quando si tratta delle frasi sul muro: questa è una sorta di regola.
GS: Il testo ha sempre avuto un ruolo così importante nelle tue opere?
NS: Mi sono diplomato in pittura nel 1981. Dipingevo già dal primo anno di Accademia, e nelle mie opere, anche se non contenevano necessariamente dei testi, era sempre possibile rintracciare delle storie. Ma venivo regolarmente criticato da autorevoli artisti bulgari, fautori dell’“art pour l’art”: secondo loro questo era disdicevole. La cosa generava in me grande preoccupazione, ma continuai così; fu intorno alla metà degli anni Ottanta che nei miei quadri cominciarono a comparire dei testi, prima in bulgaro, poi in bulgaro e inglese; infine, dall’inizio degli anni Novanta, in inglese: non volevo risultare esotico, volevo raggiungere il maggior numero di persone possibile. Come dicevo, non faccio previsioni, non decido in anticipo ciò che scriverò. Talvolta ho una vaga idea, ma in genere parto da un’immagine, poi individuo uno spazio ridotto, per esempio comincio a scrivere in un’area di venti centimetri, in basso, in fondo al quadro; e qui subentra una situazione di suspence tutta mia: come terminare l’opera in modo logico quando hai ancora a disposizione quattro centimetri in tutto? Dunque nelle mie opere si tratta di due storie che confluiscono; niente a che fare con l’idea di immagine più didascalia.
GS: In questi testi ci sono sempre tante storie, e piccoli drammi, e anche buone dosi di frustrazione; i drammi che leggiamo in queste storie sono i tuoi? La dimensione autobiografica, quanto è importante?
NS: Il mio lavoro è personale e autobiografico, e in genere le persone, come dire… non è detto che amino questo aspetto, ma ne traggono piacere. Quando, nel 2007, in occasione di Documenta 12, ho presentato 99 Fears, tanti mi hanno detto di aver avuto l’impressione che le mie storie riguardassero loro personalmente, che si potessero riferire alla loro vita. Ancora oggi ricevo commenti di questo tipo, sebbene molte di quelle storie siano state inventate di sana pianta. Lo trovo gratificante. Soprattutto quando a reagire sono dei giovani. Comunque di solito le storie sono semplici. In ogni caso proprio quando faccio riferimento a sentimenti e situazioni personali, sento che è importante mantenere un livello di autoironia, addirittura di sarcasmo. Senza autocritica non risulterei credibile.
GS: Il tuo lavoro è anche fortemente legato allo spazio. Spesso si compone di elementi di piccolo formato e occupa spazi interstiziali, o comunque piccoli, intimi, come possono essere le pagine di un libro; in altri casi si sviluppa su ampia scala occupando ambienti di notevoli dimensioni. Ma nasce comunque in relazione al luogo e allo spazio.
NS: Sì, mi è capitato di avere a disposizione molto spazio, per esempio in occasione di Documenta si trattò di duecentoquattro metro quadri, e in quel caso cercai di dare all’installazione l’aspetto di un allestimento museale. D’altra parte mi sono laureato in wall-painting. Quando frequentavo l’Accademia a Sofia, il mio professore di allora era solito ricordarmi che un pittore arriva sempre e comunque secondo; prima di lui è arrivato l’architetto che ha progettato lo spazio. Il risultato è che oggi, senza modestia, posso dire che nessuno spazio mi può sorprendere. Sono pronto ad adattarmi a qualsiasi luogo; il lavoro si svilupperà gradualmente nell’ambiente. Non si tratterà di conquistarlo, ma di cooperare con esso in modo che i visitatori ne possano trarre soddisfazione.
GS: Un’altra questione profondamente legata al tuo lavoro: l’imperfezione, l’errore, la dimensione del fallimento. Desideri, apprensioni, piccole manie e fobie rientrano nel tuo lavoro, esplicitamente dichiarate. Tu metti in campo sistematicamente umorismo, autoironia, e la capacità di sorridere di fronte alle proprie fragilità. Chiaramente utilizzi questi atteggiamenti come filtri attraverso i quali osservare, con sguardo rinnovato, la realtà che ci circonda e come strumenti per sovvertire ogni aspetto stabile, ogni inutile retorica, non ultime quelle riguardanti il contesto istituzionale dell’arte.
NS: Non mi vergogno di ammettere un errore. Persino nell’installazione di Documenta, nel testo principale, mi sono accorto di aver fatto un errore, e come è avvenuto in molte altre situazioni ho dichiarato apertamente “scusate, questo è un errore”. Una volta un curatore mi ha chiesto cosa avrei fatto se una mia mostra si fosse rivelata un flop, e gli ho risposto che ci avrei scritto vicino: “è un errore, una cattiva mostra”. Prendersi troppo sul serio è pericoloso, e gli altri finiscono per non crederti più.
GS: Cos’è, per te, l’imperfezione? Le attribuisci un valore?
NS: Immagino di sì, ma non ti so rispondere. Ma, per esempio, prendi alcune di queste pitture: dietro ci sono altre situazioni, altri scenari. Perché, certo, arriva un momento in cui penso: ci siamo, va bene. Ma poi può avvenire che io mi renda conto che non è così, che devo cambiare tutto. Allora rifaccio, ma sul medesimo supporto, perché non butto mai via un’opera; semmai modifico la storia, o ricopro la tela di colore, o d’inchiostro. Certo, a distanza di anni ci si può accorgere che certe cose non le avresti dovute fare, o scrivere, e non le rifaresti nello stesso modo. Crescere è così, diventi più maturo, più vecchio e, si spera, più saggio.