Maurizio Cattelan: Ti senti a tuo agio a realizzare video abbastanza borderline, dal punto di vista morale?
Neïl Beloufa: Io creo rappresentazioni del mondo, il che significa che ho a che fare con ciò che realmente esiste, senza mascherarlo o giudicarlo, in modo da spronare lo spettatore ad affrontare la realtà. Rispondere sì o no a questa domanda è forse meno importante di dire che credo che comunicare la mia personale visione del mondo sarebbe inappropriato — sarebbe una sorta di assurda propaganda portata avanti da una persona che non conosce altro. Non penso sia questo il ruolo dell’artista. L’arte dovrebbe davvero permetterci di allontanarci dal mondo, e non dovrebbe illustrare messaggi o proporre grandi teorie. Le ideologie sono il nemico, e anche l’individualismo. Infatti il mio lavoro cerca di disfarsi di ogni tipo di giudizio morale tra il bene e il male, così come di ogni dicotomia tra finzione e realtà. Per esempio La domination du monde (2012) e Kempinski (2009) sono video che riproducono concetti legati al razzismo e all’esotismo pur dando l’impressione di avere buone intenzioni. Non sono né veri né falsi. È un tentativo di porre lo spettatore in una posizione scomoda tra una paternalistica prospettiva occidentale e un’immagine interessante o divertente. Spero che questi lavori aiutino le persone a guardarli per prenderne le distanze, assumere una posizione e pensare a questo immaginario, piuttosto che accettarlo ciecamente — o accettare me. In sostanza, hanno a che fare con il rifiuto di una certa forma di autorità che viene da me o dal medium.
MC: È necessario essere privi di gusto? Ha un appeal più popolare?
NB: Ero portato ad avere buon gusto. L’anticonformismo era identificare le caratteristiche più volgari della cultura popolare mainstream. Oggi non penso più che ci siano cose come un’immagine bella o brutta, ed è per questo che cerco di guardare al mondo senza inserire informazioni in ordine gerarchico. In questo senso, questo è un gesto politico. Cerco di non lasciare niente fuori.
MC: Perché realizzi installazioni per i tuoi video?
NB: Mi piace interferire con la mia autorità perché non voglio che i miei video persuadano o influenzino lo spettatore. Mi interessano le armi a doppio taglio. Infatti, le installazioni usano le stesse dinamiche del video, ma aumentano e rendono complessa la comprensione stratificando le cose al di là dell’apparente messaggio. Il loro scopo è inoltre evitare di mettere in scena una sorta di macchine teatrali che sono effettivamente usate nei film o nelle chiese. Eppure devo dire che mi piace anche solo costruire oggetti: è un modo per imparare cose sui materiali, provare cose, espormi al rischio. La maggior parte del mio lavoro si basa su come elementi differenti e segni si colleghino gli uni agli altri. Mi concentro più sulla relazione tra l’opera e lo spettatore che sull’opera stessa, e mi piace creare una situazione in cui lo spettatore deve connettere le idee con forme o storie.
MC: La massa di immagini digitali e la ridefinizione del modo in cui l’arte è distribuita sembra spostarci dalla reale esperienza di opere d’arte. Le tue sculture sono collocate come foto, ma i tuoi film sono film…
NB: Anche se è un po’ triste, è vero. Mi piace il fatto che tutto sia mediato dai documenti perché sono strumenti così perversi. È difficile comprendere il mio lavoro a partire dalle fotografie, così sembra che le persone le trovino più interessanti di ciò che sono realmente. Mi piace l’idea di un mondo iperrealista dove i segni dell’esistenza di un fenomeno sostituiscono il fenomeno stesso. Tu stesso hai realizzato alcuni lavori abbastanza fotogenici, vero?
MC: Sì. Credo di essere stato stregato dalla potenza delle immagini forti. Tu invece sei molto più “atomizzato” in un certo senso. Non è immediatamente chiaro allo spettatore come essi debbano approcciare il tuo lavoro, vero?
NB: Spesso mento a me stesso e desidero non essere autoritario. La comunicazione è il nemico. Penso a me stesso non tanto come a uno scultore, ma più come un editor; il mio lavoro si palesa nella relazione tra lo spettatore e il lavoro — non nella cornice dell’opera.
MC: Ho notato che le tue sculture sono spesso a grandezza umana.
NB: Vero. Spesso di 1,8 metri o ad altezza dell’occhio, o a volte all’altezza di un tavolo o di un animale domestico. È un po’ stupido, ma è anche il motivo per cui mi piacciono i fallimenti visibili, la mancanza di efficienza e un senso di messinscena nei miei lavori. È un modo per reagire a un mondo in cui tutto è trasformato in industria produttiva, e senti che esisti solo se stai crescendo. E nell’arte, non importa se qualcosa è brutto; puoi dire che l’hai fatto di proposito; non è come la chirurgia. E anche se non si tratta di un’affermazione consapevole, penso che i formati domestici che trovi nel lavori di molti artisti riflettono una consapevolezza del ruolo del mercato dell’arte che, naturalmente, accettiamo tranquillamente.
MC: Sembri abbastanza interessato al lavoro di altri artisti. Cosa ne pensi del curare mostre come artista? Mi sembra che ti piaccia l’esercizio, come hai fatto già diverse volte. È difficile?
NB: Veramente non sono realmente interessato alle opere. Principalmente rispetto gli artisti. Voglio dire, guardando i lavori ho realizzato che mi sentivo maggiormente sedotto quando il mio ego era lusingato e quando fondamentalmente stavo riconoscendo qualcosa. In altre parole, mi divertiva avere pensieri che già avevo consolidato in un modo interessante. Così in un certo senso il mio giudizio sugli artisti ora è fondamentalmente basato sulla persona che lo sta facendo. Se un lavoro a prima vista sembra debole, ma rispetto la persona che l’ha realizzato e credo nelle sue intenzioni, credo nel lavoro. Quando le persone mi chiedono se voglio organizzare una mostra, sono felice di farlo. Ma non sono assolutamente un curatore; non sono esperto di niente. E la maggior parte del lavoro che ho curato è più un montaggio intuitivo che una mostra. Inoltre, da quando ho prodotto mostre per me stesso, sono diventato un tecnico esperto di mostre. Ma non penso ci sia stato alcun tipo di posizione autoriale quando ho curato. È più come suonare canzoni sul mio iPhone durante una festa.
MC: Parli molto del non stabilire una gerarchia, e dici inoltre che produci “naturalmente” cose per un mercato. Sei un marxista o un capitalista liberista?
NB: Penso che la quantità di lavoro che faccio sia il valore più importante nel mio sistema, ma sono ovviamente felice quando un lavoro viene venduto. Il mercato è un mezzo per e un fine, e quindi sono uno strumento consenziente per il mercato. Posso duramente criticare qualcosa che accetto e a cui appartengo. Ciò a cui aspiro, su tutto, è l’autonomia dei miei lavori, il che significa che non voglio dover parlare di loro per farli esistere, e non voglio occuparmi del contesto in cui essi si trovano. Allo stesso modo, cerco l’indipendenza finanziaria cosicché non devo aspettare che le persone mi offrano dei progetti prima di produrli. Mi piacerebbe che il mio modello economico fosse come quello inventato dai Wu-Tang Clan, ma su scala differente. Dai loro esordi, essi hanno definito una serie di regole che aspirano a creare una dinastia hip hop che durerà per secoli. A frequenza annuale, ogni membro fa uscire un album solista con il supporto di uno degli altri membri e con una diversa casa discografica, in modo da controllare il mercato, evitando la competizione tra di loro ed essere ogni volta il numero uno. Ogni quattro anni producono un nuovo album insieme, e allo stesso tempo istruiscono nuovi membri che un giorno li sostituiranno. Ha funzionato fino a quando uno dei membri è morto, il che ha reso gli album collettivi meno interessanti. Sarebbe fantastico costruire un sistema simile per la produzione di opere. Gli artisti sarebbero i responsabili per la produzione artistica della loro era: gli artisti established finanzierebbero gli artisti emergenti, chi vorrebbe a turno potrebbe finanziare le successive generazioni. Essi si finanzierebbero l’un l’altro e alimenterebbero il mercato e le istituzioni senza essere dipendenti da loro. Vorresti essere parte di questo?
MC: Perché no? Stai cercando di stabilire una tendenza generazionale, una sorta di gruppo di artisti che la pensano allo stesso modo come negli anni Novanta? La tua generazione sembra molto più individualista comunque. Come puoi credere nel potere del “clan”?
NB: Non mi piacciono le comunità quando esprimono un messaggio o un’immagine. Nel frattempo, non so perché tra me e il mio governo non ci sia una struttura di dimensioni medie: qualcosa tra me e la mia banca, oppure me e Fedex, dato che in ogni conflitto con loro io perdo perché sono troppo piccolo. Forse potremmo cominciare a sindacalizzare il mondo dell’arte. Anche se sono d’accordo con questo, allo stesso tempo sono parte di una bizzarra, hardcore, liberale, anarchica, individualista industria. C’è una sorta di super-volgare nozione di singolarità nel modo in cui lavoriamo. Non so veramente a cosa credere.
MC: Qual è il tuo rapporto con i dealer, i collezionisti, i curatori, i critici?
NB: Non sono super professionale, nonostante cerchi di esserlo. Quindi, fondamentalmente io cerco di considerare gli umani come umani, e non avere rapporti con le persone che non mi piacciono come esseri umani. Spero sinceramente di non fare distinzione tra qualcuno con o senza potere; ma io sicuramente delle volte mi piego, e mi sento follemente colpevole di questo.
MC: Sei cinico?
NB: No, non lo sono.