Una volta che l’idea dell’opera è chiara nella mente dell’artista e la sua forma finale è stabilita, il processo è portato avanti alla cieca. Ci sono molti effetti collaterali che l’artista non immagina. Questi possono essere usati come idee per nuovi lavori.
—Sol LeWitt, Sentences on Conceptual Art, 1969
Sono molti gli artisti che negli ultimi anni hanno proposto (con un twist) rifacimenti piuttosto letterali di lavori degli anni Sessanta e Settanta, umanizzando e rimettendo in pratica con eccentrico senso dell’umorismo alcuni dei principi chiave dell’Arte Concettuale, come la preminenza dell’idea sull’oggetto, la dematerializzazione dell’arte, la problematizzazione della nozione di autore, ecc. Discostandosi dal bianco e nero, dalla bassa risoluzione delle opere a cui fanno riferimento, i nuovi lavori infondono l’estetica criptica e sofisticata di quei decenni con i germi della cultura di massa, giungendo talvolta a un vero pervertimento in chiave trash dell’originale. Questa tendenza “neocon” — ma tutt’altro che conservatrice — ha la sua icona nel video piuttosto esilarante di John Baldessari, Baldessari Sings LeWitt, del 1972. L’artista americano canta su motivi molto noti i punti del manifesto dell’Arte Concettuale Sentences on Conceptual Art, scritto pochi anni prima da Sol LeWitt. Introducendo la sua performance con l’affermare che “queste idee sono state chiuse troppo a lungo nei libri d’arte”, Baldessari prova a creare ironicamente un’intersezione tra due sistemi molto distanti, il discorso teoretico e la musica Pop, senza per questo credere davvero all’utopia di un pubblico di massa per l’arte. Basata sull’appropriazione, l’opera di Baldessari non gioca però solo sulla referenzialità ma anche sull’esperienza diretta, comunicando allo spettatore, al di là dell’iniziale effetto comico, il disagio e la difficoltà del tenere insieme due linguaggi incompatibili. Anche se le Sentences on Conceptual Art “commentano l’arte ma non sono arte”, come lo stesso LeWitt afferma, il video di Baldessari può essere considerato come uno dei primi esercizi meta-concettuali, creando un’opera nuova da un possibile “effetto collaterale” delle idee di qualcun altro, come enunciato ancora dalle parole di LeWitt canticchiate da Baldessari.
In fondo non troppo noto né fondamentale rispetto ad altre opere dell’artista americano, Baldessari Sings LeWitt è gettonatissimo nell’ambito della pratica “neocon”. Jonathan Monk, per una mostra al CAC di Vilnius nel 2001, ha presentato, in collaborazione con Pierre Bismuth, un editing del video con un approssimativo doppiaggio in lituano, dall’intonazione retorica tipica dei documentari di propaganda sovietica. La voce di Baldessari rimane udibile in sottofondo ma il sovrapporsi dei suoni rende praticamente incomprensibile sia una lingua che l’altra. Catriona Shaw Sings Baldessari Sings LeWitt Re-edit Like a Virgin Extended Version (2003), del portoghese João Onofre, è invece un remake Pop dell’opera originale, in cui una dotata vocalist interpreta il testo di LeWitt sulle note di Like a Virgin di Madonna. Il messicano Mario Garcia Torres ha realizzato infine nel 2006 una versione karaoke delle Sentences, dando allo spettatore la possibilità di seguire le orme di Baldessari ma con la libertà di usare la propria melodia preferita.
Ciascuna di queste opere offre una traduzione contemporanea del tentativo semiserio di Baldessari di proporre a un pubblico più ampio un contenuto teorico veicolandolo attraverso il linguaggio dell’intrattenimento, senza trascurare le contraddizioni insite nell’impresa. Perfetti esempi dell’attitudine al remake concettuale, i lavori di Monk-Bismuth, Garcia Torres e Onofre combinano citazione e revisione giocando sulla doppia esposizione che mette in parallelo due epoche, due forme di espressione culturale, e dialogando sia con il lavoro al quale si riferiscono che con il presente. Più che offrire semplici rimandi storici, queste opere sollevano interrogativi attuali riguardo alla politica, all’idea di traduzione, memoria, accessibilità dell’informazione, mercificazione della cultura. L’appropriazione dalla quale partono è molto diversa dalla suggestiva ma superficiale pratica della citazione post-moderna, volendo costituire un punto di vista alternativo su ciò che è già passato. Come delle riuscite cover musicali, che prendono un’intera canzone e la reinterpretano, ottenendo un suono tutto nuovo ma anche restituendo emozioni del passato, queste opere sono una potente forma di “ripetizione innovativa”, una ripetizione che produce differenza.
È chiaro che, anche quando il rifacimento è affrontato con cura filologica, l’interpretazione ha comunque il ruolo decisivo. Significativa a questo proposito Seven Easy Pieces, l’operazione di Marina Abramovic che nel novembre 2005 ha riproposto al Guggenheim di New York sette performance storiche degli anni Sessanta e Settanta, sue e di altri artisti tra cui Nauman, Gina Pane, Beuys. Il senso di rifare queste azioni è per Abramovic quello di ridar loro vita, di restituirle a un pubblico che non ne ha potuto fare esperienza. Nel ripeterle, però, quelle azioni diventano ovviamente qualcosa d’altro, che ha a che fare con la situazione e il modo in cui si compiono di nuovo almeno tanto quanto con il passato a cui si riferiscono.
Sostanzialmente è la regola che la Abramovic si pone a monte delle sue rivisitazioni — studio accurato, rispetto per l’originale e richiesta di permesso agli aventi diritto — e la sua provocatoria intenzione ultima — verificare se la performance può essere trattata come performing art, come teatro — che le differenzia dalla rimessa in scena di azioni celebri da parte di altri artisti. Come Yoshua Okon, che nel suo Coyoteria, del 2003, offre una più che libera rilettura di I Like America and America Likes Me (1974) di Joseph Beuys. Okon veste i panni dell’artista tedesco ma, creando un legame fra corruzione, economia e politica, sostituisce il coyote che rimaneva chiuso con Beuys in una galleria di New York per una settimana, con un “coyote umano”, termine con cui in Messico si indica il “galoppino”, il mediatore/sfruttatore che si occupa di combinare accordi non sempre legali con il potere e di portare illegalmente persone oltre il confine. Il fallimento del progetto di Beuys, che aspirava a una trasformazione sociale, è sottolineato dall’attenzione ricondotta da Okon sulla ferocia delle relazioni umane nella società attuale guidata dal denaro.
La coppia di artisti britannici Iain Forsyth e Jane Pollard si riferisce invece a una video performance di Acconci in Walking After Acconci (Redirected Approaches), del 2005, appropriandosi delle sue strategie volte a stimolare il confronto e il coinvolgimento e aggiornandole attraverso l’uso dell’estetica propria della musica rap. In 24 minuti di eccellente improvvisazione, l’MC Plan B percorre un corridoio fumando e raccontando, con sguardo dritto alla telecamera, i dettagli della sua vita amorosa. Trent’anni dopo il Walk-Over (Indirect Approaches) di Acconci, il linguaggio visivo del videoclip sembra ai due artisti britannici il modo migliore per coinvolgere il pubblico, per penetrare sotto la pelle, nella psiche degli altri.
Tra i maestri degli anni Sessanta e Settanta è Nauman a offrire il “materiale per cover” più sostanzioso.
Se ancora Forsyth e Pollard rifanno uno dei suoi Corridor Pieces, e João Onofre risolve brillantemente con l’ausilio di un illusionista l’empasse di Failing to Levitate in the Studio, Francesco Vezzoli nel 2005 dedica a un suo personalissimo remake di Nauman un’intera mostra a Berlino. Influenzato dalla passione per il glamour e l’eccesso visivo che caratterizza tutto il suo lavoro, in The Return of Bruce Nauman’s Bouncing Balls (2006) Vezzoli utilizza una porno star per rifare un video del 1969 in cui Nauman faceva rimbalzare i suoi testicoli con una mano. Vezzoli sposta l’azione fuori dallo studio, luogo cruciale per Nauman, in un fittizio paesaggio di montagna, mostrando il muscoloso corpo nudo dell’attore in slow motion, con sottofondo di musica classica. L’attenzione rivolta da Nauman all’indagine della fenomenologia del mezzo video è qui giustapposta senza soluzione di continuità al riferimento all’estetica cinematografica e alla psicanalisi freudiana. In Flower Arrangement. Homage to Bruce Nauman, Vezzoli illustra in sette istantanee in bianco e nero le metamorfosi di una natura morta. Mentre nell’originale per una settimana Nauman modellava ogni giorno in modo diverso un mucchio di farina, fotografando poi le sculture effimere ottenute, Vezzoli gioca con le parole, trasformando “flour” (farina) in “flower” (fiore), e mette in mostra un cesto di cento rose rosse, come l’omaggio di un ammiratore nel camerino di una diva. Sulla parete dietro le rose, le fotografie che documentano il progressivo appassire della corbeille.
Per la sua stessa natura autoriflessiva e per l’enfasi riposta sull’idea piuttosto che sulla forma, l’Arte Concettuale offre terreno fertile per questo genere di lavori “a doppia esposizione”. Per tornare alle Sentences on Conceptual Art di LeWitt, da cui si è partiti, “le idee da sole possono essere opere d’arte, si situano infatti in una catena di significati che solo eventualmente trovano una forma”. Intervenendo su questa concatenazione di senso e di idee, artisti come Mario Garcia Torres e Jonathan Monk rendono problematiche le nozioni di autore e originalità, nel momento in cui completano il lavoro di altri artisti intrecciandolo con elementi presi da storie personali o realizzandone delle versioni alternative. Per None of the Buildings on Sunset Strip (1998), che si riferisce al libro di Ed Ruscha Every Building on Sunset Strip del 1966, Monk ha fotografato tutte le strade che conducono al famoso boulevard di Los Angeles, quindi, letteralmente, “nessuno dei suoi edifici”. Condividendo l’approccio alla fotografia privo di artisticità di Ruscha, Monk rinnova la demistificazione del mezzo e del processo artistico che informa l’opera originale. Today (Latest News from Kabul), 2006, di Mario Garcia Torres, si riferisce invece ad Alighiero Boetti e al suo amore profondo per l’Afghanistan. Garcia Torres parte da un lavoro del 1970 di Boetti, che consisteva nella semplice azione di scrivere sul muro la data e l’orario corrente, ma invece della data scrive le ultime notizie di cronaca da Kabul, usando entrambe le mani, partendo dal centro e procedendo in direzioni opposte, come faceva Boetti. Ogni volta che il lavoro viene installato il testo è diverso perché legato alla situazione della città afghana in quel momento: un lavoro che lo stesso Boetti avrebbe verosimilmente potuto fare. Se per un verso Garcia Torres manipola quindi la Storia dell’Arte alludendo a una possibilità che non è accaduta, dall’altra sembra puntualizzare quanto sia insignificante l’impatto che l’essere umano può avere sul corso del tempo.
Ciò che appare evidente, anche attraverso la ristretta selezione dei lavori citati, è che “neocon” è uno stato d’animo e certo non un termine per codificare un tipo di procedimento o una tendenza precisa. Ci sono differenti modi di avvicinare ciò che è rimasto delle potenzialità dell’Arte Concettuale così come di riprenderne le questioni rimaste in sospeso. Creando una curva nel tempo, gli artisti di cui si è qui parlato, con approcci differenti, intendono proporre un’alternativa basata sul confronto e sul dialogo alla dialettica competitiva che più spesso anima la Storia e la cultura.