Dopo quella che sembrerebbe la chiusura di un’importante fase, articolata attorno a quattro fondamentali momenti espositivi della sua carriera — Cuckoo (Viafarini, 2006), Revenge (Biennale di Venezia, 2007), Untitled (mamoiada) (Museo Man, 2007-2008) e Hymn (Manifesta 7, 2008) — ci siamo chiesti dove stesse andando a parare il lavoro di Nico Vascellari. Quelle opere hanno composto il ciclo che lo ha consacrato come uno degli artisti più solidi della sua generazione, in grado di creare interventi minimi, basati sulla sua presenza e sui suoi gesti e, contemporaneamente, di affrontare grandi spazi con opere sorprendenti quanto importanti attraverso la creazione di forme che hanno stravolto quegli stessi spazi con luci, suoni, immagini video e oggetti. In una parola, sculture.
Ma come trasmettere i pensieri e le impressioni di una serie di lavori in cui ciò che è essenziale non si vede (e riesce solo parzialmente a essere condiviso) e invece ciò che è visibile è talmente maestoso e monumentale da rimettere in secondo piano il racconto e le sensazioni?
In altre parole, e nel caso specifico di Nico Vascellari, come fare ad affrontare il suo lavoro recente senza fermarsi davanti alle mastodontiche strutture e a un talento in grado di combinare energie disparate? Come andare insomma oltre queste evidenze per definire quelli che — anticipiamolo — sono gli elementi fondamentali della sua pratica più recente: la creazione di onde alternate di vivacità e di dannazione, combinate con due condizioni inedite, la metrica e l’estensione della sequenza dell’opera.
Quello che ci sembrava subito chiaro è che dopo quei quattro momenti fondamentali del suo passato recente qualcosa fosse cambiato. Quelle opere, nonostante la loro totale diversità, avevano in comune il rafforzamento — se non addirittura la vincolante consacrazione — di un personaggio quasi mitologico già precedentemente definito con la saga performativa A Great Circle; un personaggio che aveva raggiunto il suo apice in Revenge per annunciare poi l’inizio della sua graduale trasformazione in Hymn a Manifesta 7, opera contraddistinta dall’assenza di quella carismatica figura.
Quei primi auspici di trasformazione e di sbriciolamento si sono successivamente confermati: Nico Vascellari è oggi un artista piuttosto diverso rispetto a come si presentava fino a due anni fa, ed è questo processo trasformativo o, volendo, evolutivo, che vogliamo interrogare in questo scritto.
Oltre allo sviluppo di una complessa e studiata mise en scène di rituali con pratiche ben precise (nonostante la componente di improvvisazione sia sempre molto presente, attestando una ricerca e una forma di intelligenza non-lineare, non controllata e tanto cara alla tradizione musicale noise dalla quale l’artista proviene1), l’elemento fondamentale di quel ciclo di opere era indubbiamente il personaggio stesso dell’artista, presentato e svelato di volta in volta come una figura mitica, imponente, arricchita da attributi drammatici (abiti, ciondoli, bastoni, lunghi e pesanti mantelli con cappuccio…), che contribuivano alla sua caratterizzazione come una versione paradossalmente cupa e giovanile di un Krampus, spesso insieme al suo clan di fedeli e seguaci assistenti.
Ma già in I Hear a Shadow (Lambretto Art Project, Milano 2009) quella figura sembrava cedere il passo. Innanzitutto l’opera è una monumentale scultura in bronzo forgiata a partire dal calco di un macigno di marmo estratto da una montagna. Non ci sono evocazioni di palchi, o casse audio, o schermi in legno o in vetro infranti, né proiezioni alterate, nessun elemento prelevato da altre discipline e rivisitato. C’è una performance, ma senza gli ormai tradizionali codici del rito. Nico Vascellari, al buio, imbracciando una trave, la brandisce aritmicamente contro la scultura. Come testandola, saggiandola, o semplicemente, suonandola sino (e forse oltre) all’esaurimento delle forze. Certo, non è solo. Un incapucciato lo insegue facendogli luce nella sua peregrinazione circolare ritmica intorno a quella che ha tutta l’aria di essere una strana campana. E quattro compari nel buio, ognuno a terra, a un angolo della scultura, manipolano i suoni che vengono dal masso bronzeo microfonato. Ma l’azione resta spoglia e in un certo senso essenziale. Il giorno dopo, arricchita dei tonfi registrati durante la performance, la scultura è forse completa.
Insomma, un ulteriore aspetto che sembrerebbe emergere è la costruzione di quello che potremmo definire il dialogo serrato con una struttura metrica. Tanto in I Hear a Shadow, quanto in Gnawing My Own Teeth Behind A Closed Door (Manchester International Festival, 2009) infatti, la performance produce un sonoro segnato da un regime ritmico molto preciso, fin quasi maniacale. Una scansione ritmica con percussioni profonde che staccano decisamente dalla tradizione musicale noise-punk in cui la voce dell’artista — ora con grida improvvise, come nel punk hardcore, ora cupa e immersa in un rituale, come nel doom-metal e nel suo parente drone-doom — oppure i suoi stessi gesti con il microfono (accadeva in Revenge) producevano direttamente feedback e suoni più o meno lancinanti e manipolati, lavorati o amplificati live da altri musicisti (John Wiese, Stephen O’Malley, Ottaven o tutti insieme, a seconda delle occasioni).
Attenzione però (sgombrando così anche il campo dal cliché delle sue multiple identità disciplinari), la conseguenza effettiva di questo innesto metrico non è certo sul percorso musicale di Vascellari quanto decisamente su quello artistico2. Ciò che affiora in I Hear a Shadow e si afferma in Gnawing My Own Teeth Behind A Closed Door è l’evidenziazione di un tempo dell’opera, la costruzione consapevole della sua durata, la messa in forma di una struttura. E, non evolvendo sul piano drammaturgico, la performance non rischia mai di essere stucchevole o articolata in sequenze di “belle immagini” da tableau vivant, ma piuttosto è spinta fino all’estenuazione.
Una parola definisce alla perfezione quello che è stato Lago Morto (Vittorio Veneto, 2009): “hardcore”. Questo termine significa simultaneamente la fazione più impegnata, attiva e dottrinaria dei membri di un gruppo, ma anche quella popolare musica — un tempo giovanile — che è sperimentale per natura ed è caratterizzata tipicamente da volumi alti e da una presentazione molto aggressiva. Vero tour de force, Lago Morto è stato un progetto intensivo in cui l’artista ha riunito alcuni dei suoi compagni musicali nella band omonima e ha dato una serie di concerti disseminati in diversi luoghi della serena cittadina di Vittorio Veneto — un ristorante, una lavanderia a gettoni, una pizzeria, una videoteca, ecc. — tutti i giorni per due settimane consecutive del mese di maggio. Ripetizione quotidiana di un gesto collettivo, spontaneo e liberato, Lago Morto è stato evidentemente qualcosa di più della tournée di una band in una gradevole località veneta. Il lascito di quelle azioni è stato rielaborato, diventando un amalgama che nella sua confusione e dispersività rilanciava lo spirito delle performance, ed è stato presentato dopo una decina di giorni nella mostra “Rock-Paper-Scissors” alla Kunsthaus Graz, sotto forma di installazione video.
Come gran parte dei progetti performativi di Nico Vascellari, Lago Morto non può essere raccontato. Anzi, le parole lo renderebbero un atto di ribellione adolescenziale, svuotandolo di significato. Era necessario trovarsi lì per sentirne l’energia, la qualità e l’intensità; senza dubbio è stato uno degli eventi artistici più impressionanti del 2009, per la sua dimensione piccola e intimistica ma — e soprattutto — per l’essere un atto di totale generosità e passione. Se l’hardcore caratterizza tutto Lago Morto, curiosamente il nome del vecchio gruppo noise-punk di Vascellari e i suoi compagni definisce il suo spirito. With Love è infatti la migliore espressione per trasmettere quello che si è vissuto a Vittorio Veneto durante quei giorni: amore puro, radicale, crudo e incondizionato.
E poiché ogni momento luminoso ha la sua ombra, dopo quell’esplosione di sentimenti e di avventure regressive, Nico Vascellari è subito entrato in un nuovo intensissimo periodo di lavoro, questa volta da solo, lontano dalla ribellione fatta in casa, negli inospitali e ruvidi paesaggi postindustriali e periferici della città che simbolizza il trionfo e la decadenza delle possibilità alienanti e d’intrattenimento della scena musicale degli anni Novanta: Manchester (o Madchester, come la si chiamava all’epoca). Oltretutto, l’azione si è tenuta dentro lo spazio austero della vittoriana Whitworth Art Gallery, dove Marina Abramović ha organizzato una maratona di performance per la sezione del Manchester Festival, co-curato con Hans-Ulrich Obrist e Maria Balshaw nel luglio 2009.
Di nuovo, il racconto si dimostra inutile e impotente per trasmettere ciò che è accaduto, anzitutto perché è prevalentemente di suono e di ritmo che vorremmo parlare. Tutta la visita alla rassegna di performance era segnata dal rumore, al limite del fastidioso, di metallo battuto con una cadenza lenta, costante ma oscillante, che faceva intuire un intervento umano. Non c’erano però segni o piste che denunciassero l’origine di quel suono. Il visitatore più testardo, comunque, avrebbe scoperto che, aprendo una delle porte di servizio del museo, ci si affacciava su una scalinata sotto la quale, nella penombra e quasi di nascosto, senza nessuna speciale veste rituale, Vascellari eseguiva l’incessante azione di martellare fra loro un sasso e un pezzo di metallo (un sasso raccolto in un bosco dopo una lunga ricerca e il suo calco in ottone ottenuto dalla fusione di campanacci, come avremmo appreso dopo). Non c’è dubbio che I Hear a Shadow e Gnawing My Own Teeth Behind A Closed Door siano pensabili come una strana coppia, di cui una è il rovescio dell’altra, sia nella durata, sia nelle relazioni di proporzione fra l’artista e l’oggetto scultoreo con cui ossessivamente si misura.
Come indica il titolo, Gnawing My Own Teeth Behind A Closed Door è stata soprattutto una performance, in cui l’artista per venti giorni di fila ha assunto un comportamento animalesco, compiendo un gesto ripetitivo e disperato, fin quasi a polverizzare il sasso. Era un’anima in pena, un condannato che aveva trovato quel luogo per espiare una punizione che sembrava eterna. Abbiamo poi scoperto che non era del tutto solo, ma che, nel condizionare l’intero soundscape dell’edificio e tutte le altre performance (in corso simultaneamente), si faceva accompagnare da un compare del suo vecchio — e sempre leale — clan che, nascosto in una stanza, amplificava e distorceva i suoni prodotti da quei battiti quasi meccanici. Come se la sua sofferenza e il suo dolore fossero tanto autentici da aver sentito il bisogno di distorcerli e di spettacolarizzarli, per farli rientrare di nuovo in quel piano di sospensione della realtà che è l’arte.
Ed è in questo continuo saltellare tra le frontiere di ciò che è reale e accade veramente, e ciò che invece è messo in scena che potremmo passare a Monologo senza titolo (Cavallerizza Reale, Torino 2009), l’azione nell’ambito della serie di performance dal titolo “Accecare l’ascolto”, organizzate durante Artissima. Prima, però, si impone una riflessione che rivela un punto forse essenziale: c’è qualcos’altro che sembra contraddistinguere le creazioni più recenti di Vascellari, ed è la loro estensione temporale. Il problema non è soltanto di durata, quanto soprattutto di inafferrabilità dell’oggetto e di incondivisibilità dell’esperienza. È come se l’opera non risultasse dalla classica sequenza ideazione-realizzazione, ma si espandesse lungo quella stessa successione, comparendo in una serie di momenti e dunque fuggendo da se stessa, senza giungere mai a una conclusione. Fondamentale è la dilatazione del luogo dell’opera in una lunga sequenza fra ideazione, processo di creazione e produzione, diventando, almeno a prima vista, meno identificabile.
Di fronte a questo possibile smarrimento nei confronti dei postulati — il luogo e il momento dell’opera — a noi non resta che una considerazione: quel che conta, e quindi quel che rimane, è l’esperienza, in tutta la sua inenarrabilità. È proprio su questa condizione che agisce Vascellari nell’opera successiva, Monologo senza titolo, sovvertendo e così interpretando al meglio le sue stesse regole. Innanzitutto bisogna dire che il gesto di cambiare il luogo d’azione dell’artista, invitandolo esplicitamente a intervenire in quello eletto di un’altra disciplina senza lasciare che sia una sua iniziativa, può essere molto perverso. Nonostante l’enorme interesse per le attività sceniche, i precedenti storici nelle neoavanguardie sia nordamericane sia europee, le grandi potenzialità del teatro come mondo e fonte di sapere, gli artisti non sono attori professionisti e possono fallire clamorosamente nel loro confronto con il palcoscenico. E questo lavoro parla anche di fallimento e d’impossibilità.
Così, forse per celebrare inconsciamente la caduta simbolica di una figura già annunciata nei suoi lavori precedenti, Monologo senza titolo — opera che sembra mai avvenuta, con l’artista che si allontana furioso dopo un rapidissimo scontro prima verbale e poi fisico con il pubblico — finisce per essere una strana vittoria personale. Di nuovo stupisce, non dà quello che sembrerebbe scontato, non intrattiene e manda letteralmente al diavolo tutti quelli che l’hanno voluto vedere sul palco. E lascia forse intendere quanto, come artista, preferisca correre il rischio di celebrare il suo disastro, piuttosto che rendersi vittima dell’industria culturale che cerca a tutti costi di divorarlo. Beninteso, il punto non è l’apologia di una parabola quasi mitologica di spoliazione, quanto la considerazione del rafforzarsi di una dialettica fra entropia ed esplosione energetica che si combina con condizioni distintive emergenti delle opere d’arte più recenti di Vascellari.
Tra dicembre 2009 e gennaio 2010, in uno degli inverni più duri e ostili degli ultimi anni, Nico Vascellari è stato invitato in residenza a Perarolo di Cadore, un paese con circa 300 abitanti che ha avuto la fortuna — o forse la sfortuna — di essere tagliato fuori dallo sviluppo sia industriale sia turistico, ed è quindi una perfetta cristallizzazione dell’architettura pre-industriale. È lì che l’artista arriva a mettere in scena la sua stessa morte (Untitled, 2009), facendosi prima tatuare sul braccio una lapide con la scritta “2009” e creando poi una bara trasparente di metallo e vetro riempita di neve destinata inevitabilmente a sciogliersi, che, grazie alla presenza di un microfono, diffonde infine un suono in tutto il paese, come se fosse un funerale per un corpo già dematerializzato di cui l’unica reminescenza è puro suono, rumore, ritmo. E, naturalmente, l’esperienza di chi c’era, in tutta la sua parzialità.