La materia e i suoi stravolgimenti sono contemporaneamente la partenza e il culmine del processo artistico di Nicola Martini. Il suo lavoro si sporge verso la creazione di forme scultoree e installazioni, ma la sua reale specificità risiede nel processo del lavoro. Martini mette in opera il cambiamento di stato delle materie che utilizza (resine vegetali, fibre sintetiche, cementi) tramite una loro diretta e forzata interazione, o con l’ausilio di sostanze chimiche.
Florence Derieux: Nel tuo lavoro esplori le possibilità della materia agendo con trattamenti piuttosto violenti su di essa. Me ne parli?
Nicola Martini: I materiali che utilizzo sono strumenti che mi permettono di incrementare il processo del lavoro. È una creazione di spazi, come con l’acido cloridrico. A volte il lavoro mi chiede di porre dei vincoli e successivamente di forzarli. Apro i pori del cemento in una massa con una materia che mi permette di farlo, come l’acido cloridrico; tratto alcune aree con innesti di gomma Damar, la quale è completamente inerte al passaggio dell’acido stesso. Potrei lavorare per sempre, il dogma è la fede nel lavoro, credere è un atto potenziale. Perché il lavoro, come ambiente nel quale si vive, è ovunque e ti parla solo se lo ascolti. Dice le cose che poi divengono, il lasso di tempo che intercorre non è importante.
FD: Definisci spesso il processo del tuo lavoro “rito”.
NM: Il rito è un ambiente. Il suo spazio non ha tre dimensioni, perché coinvolge il tempo e il ricordo, che vive su un tempo diverso, non lineare; elicoidale direi. Poi c’è il fisico, che ti permettere di provare a viverlo, il rito. In questo ambiente c’è un’amalgama, senza tempo, di te e il lavoro. Finalmente in sincrono con le tue diverse code. E allora fai condividere gli estremi. Poi perdi la memoria del circostante, ma hai ogni fattore tecnico ben presente. E accade il lavoro.
FD: Recentemente con una cara amica parlavamo di fisica quantistica, di come abbiamo provato che l’Idea preceda la Materia. Di fatto che un’azione possa esistere solamente quando ne abbiamo testimonianza. Come un fisico dei quanti, mi sembra che nella tua ricerca manipoli costantemente paradossi.
NM: Possiamo essere veramente sicuri che un’azione esista solo quando ne abbiamo testimonianza? Ogni azione, anche potenziale, ha delle conseguenze sulla materia. Per esempio il vetro: è un solido amorfo, un liquido veramente molto denso che continua a colare, lentamente e costantemente. Ritieni possibile una semplice disposizione di una massa su una superficie? Anche solamente alcuni grani di materia potrebbero sprofondare in essa…
FD: Certo, ma non trovi affascinante pensare che il corso di un’azione possa essere cambiato anche solamente con lo sguardo? Come tu dici: ogni azione ha almeno una conseguenza. Se un’azione ha luogo all’interno di un dato sistema, adesso sappiamo con certezza che ci saranno delle ripercussioni in un altro luogo del sistema stesso. Anche azioni potenziali hanno delle conseguenze.
NM: Assolutamente. Il sistema di cui tu parli per me è il lavoro. Ogni azione è una scelta politica, nel suo senso più strettamente etimologico. Il “come” un processo viene intrapreso spesso è più importante del “cosa”. Il rito trova compimento in una posizione, è l’approccio a esso che determina, è il modus operandi. Se credi in questo, solo allora può accadere il lavoro. È la fusione degli estremi in un’amalgama che rappresenta i livelli di questo insieme.
FD: Il chimico francese Antoine Lavoisier scrisse che “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”…
NM: Questo mi fa tornare in mente l’esperienza dell’alchimista arabo-yemenita Jabir ibn Hayyan, il vero passaggio dall’alchimia alla chimica applicata; di nuovo il rituale e l’ossessione di credere nel tentativo costante di perseguire un obiettivo sconosciuto gli permise di arrivare alla scoperta dell’acido cloridrico, miscelando salgemma e vetriolo verde (rinominato dallo stesso Lavoisier “muriatico”, dal latino “muria=salamoia”). Sono vicino a questo approccio, questo modus operandi, con cui Jabir ibn Hayyan svolgeva le sue ricerche, arrivando, paradossalmente, allo sviluppo dell’“acqua regia”, unico modo, a oggi, di ossidare oro e palladio.
FD: Tu utilizzi nel tuo lavoro esperienze alchemiche e chimiche.Per esempio, hai usato il ciclododecano in alcuni dei tuoi lavori, hai trattato con l’acido cloridrico la piastra di cemento che hai realizzato per la performance al FRAC Champagne-Ardenne a Reims nel Dicembre 2011 (Senza Titolo, 2011). Anche nella scultura realizzata in collaborazione con Vittorio Cavallini nel bosco nelle vicinanze del tuo atelier hai impiegato lo stesso acido. Due masse in cemento e legno di larice in relazione per i loro pesi e attriti, aperte dall’acido cloridrico e connesse a un albero, creando un processo di sublimazione. Sono particolarmente interessata a questo lavoro, per il rapporto peculiare della tua ricerca con una certa idea di natura. Nonostante il riferimento all’esperienza dell’Arte Povera, ne percepisco una certa distanza.
NM: Il lavoro è sempre addizione e ricollocazione di materia, generatore di paradossi all’interno delle sue pieghe. La materia non ha classificazioni, ma specificità. Utilizzo le sue varie moltitudini a seconda di ciò che l’opera chiede; in entrambi i lavori che hai citato, il cemento che componeva le masse che ho utilizzato chiedeva di essere aperto con l’acido; non c’è poesia o narrazione, c’è esperienza e necessità. Nel caso di Senza titolo (2011) con Vittorio Cavallini c’era la necessità ulteriore di condividere lo studio di un connettore, in “due movimenti” con diverse densità.
FD: Hai menzionato il termine “osmosi” — un influsso reciproco — in un testo che hai scritto sul tuo lavoro nel 2010, circa il fatto che “qualcosa sfugge dallo spazio risonante”. Utilizzi nel tuo parlato termini come “vibrazione”, “unisono”, “connetori”, “livelli e sottolivelli”… La relazione che intercorre fra materia e suono è un elemento presente nel tuo lavoro. Nel tuo progetto da Viafarini a Milano nel 2011, per esempio, l’intero spazio sembrava essere stato letteralmente ascoltato, come se fosse vivo. Potresti parlarmi di questo progetto e del titolo che hai scelto, ∑?
NM: L’osmosi è intesa come un passaggio di materia all’interno della materia stessa. Nella mia pratica, per lo stesso dogma di cui parlavo precedentemente, il processo acustico e la generazione del suono è considerato come una massa. È uno strumento, un attrezzo che mi permette di trasmettere movimenti alla materia stessa, in cerca della risonanza, come possibilità. Sono un operaio che lavora al servizio del lavoro stesso. ∑ è una molteplicità di significati in diverse discipline, una sommatoria di fattori e insiemi.
FD: Mi parleresti di “Sur des situations multiples”, primo progetto personale in Francia, al FRAC Champagne-Ardenne, da cui prende nome la tua prima monografia?
NM: Il lavoro è composto ed è estensione di “molteplici situazioni”. Le situazioni molteplici della materia, dei grani che la compongono, l’amalgama di cui parlavo in precedenza. La sua apparenza e costituzione sono frutto di questa unione. Se hai fede, in questa dimensione accade il lavoro, come dicevo; non c’è miracolo, non c’è scoperta. Come nel caso di Senza Titolo (2012): una lastra di pietra Combe Brune veniva sottoposta a costanti innesti di acido cloridrico, ogni giorno. La sua struttura interna ha iniziato a cedere, i suoi spigoli hanno iniziato a incurvarsi elasticamente a causa di questa addizione; ciò ha del miracoloso, ma nella mia mente lo avevo già visto, come possibilità — è una conferma. Quattro lastre di travertino (Senza Titolo, 2012) sono disposte in una massa di cemento, trattata con bitume di Giudea. Il travertino è anch’esso sottoposto a costanti lavaggi di acido cloridrico, mentre i legami calcarei si aprono, l’anidride carbonica che ne deriva penetra nelle lastre stesse. Il bitume di Giudea trattiene l’acido e contemporaneamente si lega indissolubilmente al cemento dentro il quale è stato infiltrato grazie all’azione della luce solare; la colofonia di Senza Titolo (2012) si adatta lentamente alla struttura in cemento e bitume di Giudea su cui è stata disposta, si espande mentre contemporaneamente il bitume si restringe nei pori del cemento.
FD: Ciò che veramente mi affascina nel tuo lavoro è come sia efficace a renderci infinitamente più consapevoli dei nostri sensi e, successivamente, della nostra condizione.
NM: C’è sempre una possibilità, il nostro intervallo sensoriale è limitato. La dimensione del lavoro permette di poterlo muovere, conservando i suoi limiti naturali, su altri assi.