Alberto Zanchetta: Guardando le tue opere viene spontaneo chiedersi: quante vite può avere un dipinto? Ricchissima nella sua varietà e tipicità, la pittura è destinata a non esaurirsi mai, proprio perché è un impasto di volontà, intuizioni e affondi.
Nicola Samorì: I dipinti hanno molte vite, fino alla nausea, e allora mi domando: quanto a lungo una pittura oppone resistenza alla sua sparizione? Per scoprirlo torturo la superficie di opere plagiate rimuovendo la forma con la lama, strappandola con le unghie, affogandola nel colore o incendiandola. Scossi così a fondo, questi simulacri entrano in uno stato di coma, appesi pigramente alla loro ultima apparizione perché — ti sembrerà strano — alla fine queste forme sembrano perdere ogni ambizione, persino quella di sparire. I semi della pittura sono ostinati, migrano, s’inceppano, si reincarnano; è un processo di ecdisi continua: come la muta del serpente o come i crostacei che diventano moleche: per me il corpo dell’arte è molle e senza vertebre, pieno di liquidi, come un corpo alcolizzato.
AZ: Prima ho parlato di “affondi”, mi verrebbe quindi voglia di paragonarti a uno schermidore che persegue la faida con un fervore degno del rancore. L’amore-odio tra te e la tua opera è un eterno Duello, conflitto non dissimile dall’omonimo romanzo di Conrad: “È un destino […] una cosa che ha avuto origine nella follia della giovinezza” spiegava l’ussaro D’Hubert. A dispetto dei dipinti, che si crogiolano in un sonno del tempo, tu sei sempre en garde, pronto a sguainare il pennello per infliggere un affondo. Nessuna parata, niente finte, solo fendenti. Perseguendo la disciplina della pittura come un codice d’onore, sei consapevole che non è possibile supplicare la grazia: o vittoria o sconfitta, all’arma bianca (imbrattata di colore).
NS: “Noi ci portiamo dentro un carnefice reticente, un criminale irrealizzato” diceva Cioran e io, che non perdono alla pittura di sopravvivermi, cerco di annientarla duellando fino a quello che tu hai definito in modo impeccabile “il colpo di grazia”. Talvolta dipingere è talmente noioso che non si riesce ad assestare un coup de théâtre, si rischia anzi di restare imbalsamati di fronte al cavalletto, perché quando si scopre l’impertinenza del pennello è davvero difficile tornare indietro. Io lo faccio solo a una condizione: sconvolgere la lentezza con la promessa di uno scontro mortale; mentre dipingo qualcosa deve accadere all’immagine, qualcosa di terribile. È come soffrire del complesso d’Abramo, con la differenza che quando metti a morte una pittura nessun Dio ti blocca, a meno che il soggetto concupito non si dimostri così forte e seducente da paralizzare l’offesa; allora la mano si arresta in tempo, lo slancio appassisce e il dipinto muore in forma di copia. Ho sempre avuto un rapporto di cura e di collera con chi mi ha preceduto perciò coltivo con scrupolo le maniere degli antichi maestri e poi ne faccio scempio assassinandole. È un atteggiamento ambizioso e arrogante, ma non riesco a prescindere da questo rito.
AZ: L’artista imbastisce con la pittura un conflitto che si protrae nel tempo, per anni e anni, fino alla morte. Morte che non può essere della pittura ma solo del pittore. Al limite la pittura può suicidarsi, ad esempio quando diventa decorativa. Oppure può perire a causa dell’ostracismo, ovvero quando nessuno la degna più di uno sguardo.
NS: In pochi vedono la pittura e costoro sono sempre, e soltanto, pittori. Non tutti i pittori naturalmente, ma solo i domatori di pennelli. È da loro che dipende la vita delle forme: quando anche l’ultimo occhio vigile si chiude l’opera cessa di esistere.
AZ: A proposito di crimini contro la pittura, che dobbiamo far risalire all’impero bizantino, apogeo sia dell’icona che dell’iconoclastia: la “lotta contro le immagini” che da qualche anno stai praticando non abolisce la pittura ma la sacrifica per attuare il delitto perfetto di cui parla Baudrillard, in pratica la rappresentazione non viene negata bensì la concupisci fino all’esasperazione.
NS: Sono affascinato, quasi posseduto, dall’idea dell’artista inteso come violatore di immagini, prima ancora che come artefice delle stesse; intorno al 1400, Tomas Netter lo definiva imaginifragus, vale a dire colui che “chiama idoli” le immagini (sacre) “e le distrugge”. Solo un culto della forma molto intenso può generare questo abuso ed è proprio ciò che accade nella mia pittura da anni; nelle mie prove il corpo della pittura è nutrito giorno dopo giorno, ingrassato e curato per poi essere improvvisamente smantellato, mutilato e violato. Come un corpo di cui ci si prende cura al fine di nutrirsene con una liturgia tipica del mio retroterra culturale; a Ravenna, mia città, le pratiche di rimozione e sostituzione dovute allo scontro tra ortodossi e ariani sono tuttora leggibili.
AZ: Dipingere è una condizione naturale, non dissimile dal respirare. Se ai tempi di Plinio si credeva che il camaleonte si cibasse d’aria, possiamo ben dire che il pittore si nutre di pittura. Tu addirittura la divori, la digerisci, infine la espelli quasi fosse un bolo indefinibile, inesplicabile.
NS: Preferisco cose già masticate da altri, percorse in ogni direzione e senza attriti. È attraverso quest’usura dell’immagine che i miei gesti si compiono senza annaspare nella caccia alla novità, all’ignoto, al mai detto o alla provocazione. Quando l’arte e la sua storia assumono ai miei occhi la consistenza del cauim, allora posso usarli con la stessa disinvoltura con la quale si usava lo stucco nel Settecento. Questa fluidità distrae dal fatto che la pittura non è una cosa complicata, la pittura è una cosa impossibile. Ci sono molti “autosuggestionati” e anche nel passato solo pochi artisti mi sembrano corrispondere a quello che tu dici. Anche fra coloro che consideriamo maestri si annidano nevralgie che smascherano il limite; penso a Matisse che in una lettera confessa: “Il disegno di un colorista non è un dipinto. Occorrerebbe fornirgli un equivalente con il colore. Ed è proprio questo che non riesco a fare”. Questa simbiosi non può essere trovata se non istintivamente e solo poche volte assistiamo alla pittura come a un fenomeno spontaneo, in Velázquez per esempio, oppure in Vermeer. Questi uomini si nutrivano di pigmenti e hanno inventato colori nuovi, sapevano disegnare con il colore. Agli altri, me compreso, non resta che fingersi camaleonti e morire intossicati.
AZ: Tutta la grande pittura è metapittorica, perché indaga i suoi stessi problemi e riflette sulle condizioni del proprio medium. Fin dall’antichità il quadro è sempre stato un’opera teorica, sicché i pittori non fanno altro che filosofeggiare per immagini.
NS: Questa conversazione è un tentativo di mettersi in competizione con l’opera, di donarle l’intelligenza, come se ne avesse bisogno. Ma i pittori non si parlano, i pittori si scambiano immagini, da vivi e da morti. Pensano con le mani. E mangiano con gli occhi. I pittori si aggirano nelle pinacoteche e osservano i dipinti come la lince di Beozia vede le donne. Ci vuole la mirada fuerte di fronte alle immagini e la grandezza di un pittore si misura in base alla sua capacità di contenere i gesti di un museo immaginario. È per questo che aborro il naïf, le espressioni spontanee e i linguaggi marginali. Non c’è nulla di caritatevole nella storia della pittura, poco di sociale, niente di democratico.
AZ: Sono convinto che non si smetta mai di dipingere. È come essere abitati da un demone (solo gli imbrattatele ne sono immuni). Da un punto di vista etimologico, la definizione di Demonio deriva dal greco daìomai, che significa “dividere”. Consideriamo allora la pittura dieretica, “che separa” chi la fa da chi la giudica non sapendola fare.
NS: Io non sono abitato da un demone, sono abitato da demoni. Tu stesso hai detto che io “sono Legione”. Credo che oggi si coltivi troppo il senso della personalità e che ci sia tanta millantata unicità in giro. Non mi sono mai dato da fare per essere “me stesso”, perché la condanna all’originalità è soltanto una impostura moderna. Incurante di quest’ansia, qualcuno un giorno ha cercato di diventare Tiziano e si è scoperto Rembrandt.