Luigi Fassi: Vorrei mi raccontassi di come hai iniziato a sviluppare “The Hidden Islam”, la tua ricerca fotografica sulla geografia sociale delle moschee in Veneto. Mi sembra sia l’esito di una doppia ricerca, condotta da un lato sul campo, avvicinando le comunità islamiche nella regione, e dall’altra, su un versante più teorico, preparata come borsista presso l’Università degli Studi di Trieste. È così?
Nicolò Degiorgis: Esatto. Ci tengo molto a sottolineare sia la ricerca teorica svolta parallelamente alla documentazione fotografica, sia la spontaneità con la quale è nato “The Hidden Islam”. Ho instaurato un particolare legame con questo progetto e un’intimità con i luoghi nei quali operavo. Lavorando presso Fabrica, il centro di ricerca della comunicazione di Benetton, che si trova in una realtà veneta come quella di Treviso, mi sono trovato a confronto da una parte con un contesto giovane e internazionale, dall’altra con la tendenza della politica locale a una deriva populista. L’intolleranza che percepivo mi ha motivato ulteriormente a soffermarmi su questo tema, rendendolo il soggetto delle mie fotografie. Dopo un anno di lavoro ho voluto approfondire la tematica anche a livello scientifico e sono entrato a far parte di un gruppo di ricercatori della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Trieste. Abbiamo lavorato a un progetto incentrato sugli strumenti e i metodi di integrazione multiculturale. In generale, il mio intento è quello di riuscire a creare una simbiosi tra documentazione fotografica e ricerca scientifica, ambiti che ritengo necessario spingere ulteriormente al dialogo.
LF: Questo doppio approccio di analisi alle forme pubbliche della liturgia islamica in Italia rende la tua ricerca un caso singolare nella produzione artistica italiana. In “The Hidden Islam” prevale infatti un approccio del tutto anti-ideologico, interessato a mostrare un’emergenza effettiva, quella della precarietà civile e strutturale delle moschee in Italia. Quali aspetti di questo lavoro vorresti venissero maggiormente colti dal pubblico?
ND: In prima istanza sicuramente ciò che hai appena descritto. Essendo una tematica molto delicata, trattata spesso con superficialità e scarsa lungimiranza, ho cercato di impegnarmi a fondo nel trovare un linguaggio fotografico adatto a mostrare una situazione critica che andrebbe affrontata super partes. L’immigrazione ha investito l’Italia, come anche molti altri paesi europei, ma questo paese sta avendo molta più difficoltà nel far confluire nuove influenze culturali e religiose all’interno della propria identità. Credo un dibattito sia doveroso e necessario, e in particolare che esso attraversi in modo trasversale l’intero paese. La mappatura dei vari casi presenti nel Nord-est d’Italia mi ha permesso di circoscrivere le problematiche legate ai vari luoghi di culto e a notare una forte similitudine tra di loro. Parallelamente al progetto, ho cercato perciò di portare avanti una documentazione molto rigorosa degli spazi urbani utilizzati come “moschee”, luoghi accomunati dal fatto di essere temporanei.
LF: La tua attività come fotografo si riparte attualmente in due filoni, da un lato con il tuo lavoro in ambito commerciale presso l’agenzia Contrasto di Milano e dall’altra come artista (penso alla tua residenza appena conclusa presso la Fondazione Bevilacqua La Masa). In entrambi i casi adoperi la fotografia come strumento privilegiato per portare l’attenzione su contesti socialmente disagiati e politicamente problematici in diversi continenti, tra cui l’Africa e la Cina. Come differenzi da un punto di vista formale e pratico il tuo approccio nei due ambiti?
ND: La suddivisione tra i due ambiti avviene tendenzialmente in modo naturale e organico. Un progetto a lungo termine presuppone un’impostazione differente dai reportage, volti principalmente a raccontare una storia per un magazine o una testata giornalistica. La mia priorità resta in entrambi i casi quella di instaurare una relazione di intimità e fiducia con il soggetto, ma è naturale che il risultato differisca in base alla quantità di lavoro investita. Per esempio, la residenza presso Fabrica mi ha permesso di poter dedicare la maggior parte del mio tempo a “The Hidden Islam”. L’occasione di entrare a Contrasto è nata invece durante la residenza presso la Fondazione Bevilacqua La Masa, due realtà che, benché molto diverse tra loro, hanno apportato importanti influenze ai miei lavori. Ho infatti una formazione in parte da autodidatta, con un percorso di studi abbastanza particolare e il mio approccio resta ancora molto spontaneo. Ciò che mi interessa maggiormente è la metodologia del lavoro e in tal senso seguo le ricerche di nuovi linguaggi nella fotografia documentaria. Penso ad artisti quali Mohamed Bourouissa, Mikhael Subotzky o Armin Linke, per esempio.
LF: In effetti la tua ricerca veneto-italiana di “The Hidden Islam” si è accompagnata ad altri progetti, penso a “Tatoun” (2010), una ricerca sulle nuove manifestazioni architettoniche in Egitto — finanziate dalla diaspora migratoria egiziana in Italia — a “Oasis Hotel ” (2007-2008) e “Dear Kashgar” (2007-2008), entrambi realizzati in Cina. Stando alla cronologia, sembra che tu abbia iniziato a lavorare a progetti complessi in altri continenti e solo successivamente ti sia concentrato sulla realtà italiana. Si è trattato di un caso o hai preferito avere una maggiore libertà iniziale operando altrove?
ND: La ragione è stata dettata principalmente da fattori esterni. Avevo intenzione di fare domanda per uno stage presso l’agenzia Magnum Photos di Parigi, ma necessitavo ancora di un vero e proprio portfolio. Vivendo in Cina per motivi di studio e di lavoro, mi era impossibile iniziare a fotografare altrove. Così mi sono interessato ad alcune problematiche che affliggono certe minoranze presenti nel Nord-ovest della Cina, in particolare nella regione dello Xinjiang. Da questa esperienza sono nate le serie “Dear Kashgar” e “Oasis Hotel”, progetti nei quali mi sono cimentato nel documentare il degrado sociale causato da alcune politiche del Partito comunista cinese e dai quali trapela una mia visione critica a riguardo. La loro realizzazione non è stata semplice, anche a causa delle difficoltà incontrate nel raccontare contesti a cui non appartengo culturalmente e socialmente. Ciò mi ha portato a sentire l’esigenza di ritornare al contesto italiano, con il quale potevo instaurare un rapporto di maggiore intimità per sviluppare un progetto a lungo termine.
LF: In generale, il tuo lavoro fotografico sembra indirizzato a un uso della fotografia negli spazi pubblici, per quanto negletti o rimossi, come i precari luoghi di culto dei musulmani in Italia. È una sorta di racconto sociale in forma visiva che può dare un forte contributo per una comprensione politica del presente e dei rapporti di potere che informano la società italiana e la sua attuale trasformazione. Considerate le tue esperienze internazionali negli ultimi anni, che idee ti sei fatto sul tuo ruolo come artista oggi in Italia?
ND: Il mio interesse primario resta quello di mostrare al pubblico immagini che altrimenti rischierebbero di essere ignorate, e di tentare di avviare un dibattito a riguardo. È la mia curiosità a portarmi a osservare e a documentare come, all’interno della società civile, alcune minoranze marginalizzate riescano a ricavare per sé un ambiente nel quale vivere, e cercare in questo modo di indagare l’interazione tra le due realtà. La fotografia è il mezzo che permette di racchiudere delle informazioni, molte delle quali ci sfuggono, che perdurano nel tempo, pur piegandosi di volta in volta a diverse interpretazioni. Ciò la rende un mezzo ideale per documentare la complessità che ci circonda, e allo stesso tempo, preservarne l’irriducibilità a un’unica visione.