Nicolò Degiorgis (Bolzano, 1985) indaga concetti quali l’alterità, la condizione di straniero e le geografie periferiche attraverso un linguaggio fotografico ai limiti con il reportage. I suoi scatti, caratterizzati da vibrazioni intime e atmosfere sospese, non rientrano all’interno della mera cronaca documentaristica. Strumenti di mappatura e documentazione, sono inglobati in un discorso più progettuale che riflette attorno al libro d’artista in quanto medium in grado di conferire unitarietà e messa in discorso del lavoro. Degiorgis è il direttore creativo della casa editrice indipendente Rorhof ed è stato designato curatore ospite per l’anno 2017 al Museion di Bolzano.
Giulia Gregnanin: Nicolò, vorrei partire dalla fine, ovvero i tuoi piani per il Museion. Il progetto verterà attorno ai temi di “patria” e “Heimat”, un termine difficilmente traducibile in italiano ma a lungo dibattuto dalla filosofia tedesca (prima Heidegger e poi Gadamer) che si potrebbe approssimare in “patria affettiva”, “focolare”. Mi chiedo, dunque, se tu voglia intenderlo in senso universale o raccontare la tua, personale, “Heimat”.
Nicolò Degiorgis: Il termine “Heimat” effettivamente non è traducibile, fatto che rende il concetto sotteso ancora più significativo per una persona cresciuta in un territorio plurilingue come il mio. Descrive un sentimento di appartenenza a un contesto locale, sociale, culturale e geografico. Fino ai primi anni Novanta, alle scuole elementari sudtirolesi di lingua tedesca si studiava “Heimatkunde”, una materia che trattava il mondo che circonda ogni bambino, e partendo dal sé si ampliava alla famiglia, agli amici, alla classe, alla struttura sociale, alla geografia del territorio, all’ambiente, agli animali, alle piante e alla storia locale. Ciò offriva al bambino gli strumenti per orientarsi nello spazio e nella società, e creare una un’identità solida e univoca, volta a mantenere una coesione etnico-linguistica di una minoranza nei confronti di una maggioranza, nello specifico la cultura tedesca rispetto a quella italiana.
Dunque, il mio tentativo sarà raccontare la complessità di questo concetto, utilizzando la mia personale biografia per aggiungere un elemento di soggettività e svincolarmi dalle contaminazioni ideologiche che potenzialmente ne derivano: così la mostra risulterà una ricerca sospesa tra il Sud Tirolo e il Ticino, capace di connettere Italia, Europa, e Nord Africa, e di toccare il Medio Oriente. Affiancando al concetto di “Heimat” quello di “patria”, proverò inoltre a far emergere più esplicitamente gli aspetti antropologici e soggettivi di questo termine “contenitore”, invitando gli spettatori ad approfondirlo, farlo proprio e declinarlo a piacimento in rapporto alla propria storia e al mondo che li circonda.
GG: Il progetto, che consiste in cinque micro-mostre a Museion Passage su cinque libri d’artista inediti, e un’estesa mostra conclusiva al quarto piano di Museion, cerca di uscire dalle mura del museo, coinvolgendo luoghi, comunità, ambienti lontani dal circuito spesso elitario dell’arte contemporanea. Perché hai sentito questa necessità?
ND: Le cinque mostre a Museion Passage e nei luoghi satelliti rappresentano una sorta di fase preparatoria, ma anche una necessità, come giustamente hai notato. Sono, infatti, elemento integrante e inscindibile della mia metodologia e del contesto in cui opero nei miei progetti come artista. Anche in questa nuova veste di curatore vorrei innescare un dibattito inclusivo rispetto a ceti sociali, lingue e culture. L’arte, dopotutto, permette di operare in un territorio neutrale, permette eccezioni e lussi, che vengono concessi sempre più di rado all’interno della società odierna, e per me è fondamentale sfruttare questo potenziale per il pubblico del museo. Inoltre, le cinque mostre ruotano attorno al libro d’artista, un dispositivo che indago personalmente da quando ho fondato Rorhof nel 2014, e che è il medium per antonomasia per evadere dalla casta dell’arte e raggiungere più democraticamente la popolazione.GG: L’alterità è un tema sempre molto difficile da trattare e combatte tra due principi: esclusione e inclusione (intesa come assimilazione). “Come all’interno di una comunità possiamo concederci il lusso di rimanere stranieri?”. Questa è una domanda di Hannah Arendt che mi piacerebbe porti. Immagino che da altoatesino tu abbia vissuto diversi momenti in cui ti sei sentito straniero, in bilico tra un’identità germanica e una italiana. E ancora, il periodo in cui hai vissuto in Cina e realizzato il progetto Oasis Hotel (2014).
ND: Sono cresciuto tra il Sudtirolo e il Ticino, entrambi territori di confine, con molte similitudini e altrettante differenze. La mia famiglia ha inoltre una forte storia migratoria che sto riscoprendo solo ora grazie alla mostra di Museion. Una storia che ha influenzato e poi modellato la mia visione del concetto di identità. Quando sono in un gruppo, ad esempio, sono sempre quello che prende le distanze dalla maggioranza per dare peso specifico al dissenso, e spingere verso l’inclusione di tutti nel processo decisionale.
Questo gusto nel sentirmi diverso, o meglio quest’interpretazione personale del significato e del valore di appartenere a una comunità, ha indubbiamente condizionato il mio percorso artistico. Durante il mio periodo di studi ho iniziato a occuparmi di minoranze etniche in Cina, in particolare quella musulmana degli Uiguri. Da qui è nato Oasis Hotel, un viaggio lungo un’autostrada di 600 chilometri attraverso il deserto del Taklamakan, in compagnia di petrolieri, camionisti e prostitute Han (i cinesi propriamente detti, in questo caso popolo colonializzatore). Hidden Islam, il progetto successivo che ho realizzato nel nord-est italiano, è stato una reazione a questo viaggio e alla distanza culturale insormontabile che ho provato in Cina: senza Oasis Hotel forse non avrei scoperto la ricchezza culturale, linguistica e geografica del paese in cui sono cresciuto.
GG: Recentemente mi sono imbattuta in La Moschea di Notre Dame De Paris, un romanzo distopico del 2005 della scrittrice russa Elena Chudinova. In quelle pagine è ritratta una Francia colonizzata dalla religione musulmana, che ha costruito una dittatura e che ha addirittura trasformato la cattedrale simbolo di Parigi in una moschea. Stiamo assistendo a una vera e propria islamofobia. Credo che il tuo lavoro Hidden Islam (2014) in questo periodo storico risulti particolarmente calzante. Come è nato e come lo interpreti oggi, alla luce di una crescente paura verso un’“invasione” islamica?
ND: Ho cominciato a lavorare a Hidden Islam dopo il mio rientro dalla Cina, nel 2008. Allora mi trovavo in residenza a Fabrica, il centro di ricerca sulla comunicazione di Benetton, che si trova a Treviso. Sul fronte politico, a dettare legge, era ancora la Lega Nord, nella persona dello “sceriffo” Giancarlo Gentilini, più volte denunciato per istigazione all’odio razziale. Così, se da un lato vivevo in un contesto straordinariamente internazionale, com’è Fabrica, dall’altro mi dovevo confrontare con la xenofobia promossa in gran parte del Veneto, e quando visitai il primo centro islamico, rimasi subito colpito di come venissero sistematicamente infranti i principi costituzionali relativi alla libertà di associazionismo e di culto.
Non solo conviviamo con – e tolleriamo anche – un altissimo livello di islamofobia, ma non abbiamo ancora gli strumenti culturali per vedere e riconoscere tali comportamenti. Confrontarsi con il mondo islamico significa rapportarsi a una cultura molto vasta e diversificata. L’islamofobia porta a una semplificazione del soggetto, e di conseguenza a un approccio populistico che nega altresì alla comunità islamica il diritto di studiare liberamente la propria religione e combattere la radicalizzazione.
GG: Direi che un altro tuo territorio di indagine riguarda i mezzi di comunicazione, ovvero come questi sono spesso usati, strumentalizzati, manipolati. Come in La comunità errante (vista dalla Tribuna) (2016), l’opera presentata alla 16a Quadriennale di Roma all’interno del progetto di Luigi Fassi.
ND: La comunità errante (vista dalla Tribuna) vuole raccontare la storia della comunità islamica di Treviso e sottolineare le responsabilità che una testata locale ha nei confronti della società in quanto strumento mediatico, preposto a rilanciare questioni di interesse pubblico, con l’effetto di placare o fomentare il dibattito. Ho avuto la fortuna di crescere in un territorio con una piattaforma mediatica estremamente varia, alimentata dalla produzione di quotidiani, periodici, trasmissioni radio e TV sia in tedesco che in italiano. In un certo senso, è stato naturale sviluppare una particolare sensibilità per questioni legate all’utilizzo della lingua all’interno dei media, come anche conoscere spesso più versioni della stessa storia.