Per accedere a “Night Fever. Designing Club Culture 1960 – Today” i visitatori devono superare un corridoio trapezoidale in lamiera, neon e lampadine colorate, ricostruzione dell’ingresso del club Mach2 di Firenze, disegnato da Superstudio nel 1967. Entrandovi il pubblico ripercorre un rito necessario. Le sue pareti inclinate filtrano la realtà esterna, piegandola verso altri mondi possibili. Questa valvola di potenzialità esemplifica la ricerca degli architetti che, negli anni Sessanta, individuano nel disco club il medium ideale per progettare nuovi incubatori di dinamiche alternative dell’essere (sociali, estetiche e culturali).
La commistione fra arte e moda, luci e architettura, design e performatività che contraddistingue questi nuovi “spazi di coinvolgimento” – come li definiva Leonardo Savioli, docente degli architetti radicali fiorentini – è individuata dai curatori come ricerca verso una Gesamtkunstwerk di wagneriana memoria, la cui autorialità è estesa a tutti i soggetti che abitano tali luoghi di scoperta, dell’altro e del sé, in cui l’esperienza personale e la condivisione collettiva ne definiscono i confini. “Choose what to do – or watch someone else doing it”, scrive Cedric Price nelle istruzioni in calce al progetto, teatrale e utopico, per il suo Fun Palace mai realizzato a Londra (1964).
Fin dalle prime sale la centralità dei documenti risalta rispetto agli oggetti, con meritevoli eccezioni: le sedie Piper di Gufram e la collezione dei primi proiettori Clay Paki, la cui varietà di forme fitomorfe aiutano a descrivere la germinazione e specializzazione delle discoteche negli anni Settanta.
La mostra ha infatti il merito di inquadrare la storia delle idee che hanno contribuito alla nascita e all’evoluzione, estetica e tecnologica, delle discoteche moderne, dal Piper di Torino (1966) allo Studio 54, dall’Hacienda di Manchester (1982) e l’Area di New York (1983) fino a oggi, quando l’ovvia mancanza di distanza storico-critica, unita alla proliferazione di realtà e ibridazioni del concetto stesso di club, ne rendono meno incisiva l’analisi.
Nella sintesi della fotografia In the Waves #1 (2013), l’artista Chen Wei ricrea in studio il paesaggio essenziale di un club notturno, luminoso e sfumato, popolato da attori immersi in una composizione sonora il cui ritmo è solo immaginato, ricordandoci come questi siano prima di tutto luoghi immateriali, nati nell’incontro fra soggettività notturne e febbricitanti.