Avevo pensato di sfruttare la chiamata per porre a Nora Turato delle domande sulla tipografia, sui font che usa nei suoi lavori visivi. La chiamata è stata rimandata perché a Parigi le hanno lanciato addosso dei lacrimogeni. Non stava attivamente manifestando. Era in un bar all’aperto, a rilassarsi dopo una performance al Centre Pompidou, quando in strada è scoppiato il caos, vetri rotti e tavoli rovesciati. Si sono messi tutti a correre, ma all’inizio nessuno sapeva da cosa scappava: un attacco terroristico, la polizia antisommossa, una lucertola gigante? La consapevolezza che tutti nella folla in fuga stavano piangendo è arrivata qualche secondo prima della scoperta della causa delle lacrime e dei vetri rotti: uno scontro tra la polizia e una protesta contro la riforma del lavoro che si stava svolgendo nella strada accanto. Semplici, comuni lacrimogeni da normale società civile. Tanto vale gettare via quello che stai bevendo, perché l’odore acre pervade qualsiasi cosa.
Esiste qualcosa di più banale di protestare a Parigi? Da quando la Rivoluzione ha contribuito all’avvento della repubblica, protestare contro lo stato francese è uno dei rituali costitutivi dello stesso. La protesta di strada oscilla tra festa popolare, parata e schietta battaglia mortale. È una specie di gara di bellezza per attrarre l’attenzione di quel pigro leviatano del governo.
Partecipare a una manifestazione è il processo per sondare il potere, scoprire dove lo stato è più irritabile, e dove la sua dissonanza cognitiva diventa più ridicola. La protesta è anche lo spazio dello slogan, un anglicismo dal gaelico sluagh-ghairm, o grido di battaglia: quelle frasi che rimbalzano da un manifestante all’altro, oscillando tra cori collettivi e richieste personali. Fa parte della gioia della protesta di massa: è un’esperienza al tempo stesso del tutto trasgressiva e del tutto comunitaria, un po’ come fare l’amore. O perlomeno, tutto questo è quello che i nostri nonni rivendicavano negli anni Sessanta.
Forse questa immagine non è più vera. Adesso la situazione è più complessa. I rapporti di causa ed effetto più opachi. La disinformazione è cresciuta su ogni cosa, tanto fitta che è difficile distinguere i contorni del problema iniziale, e tanto meno la coerenza dei dettagli. Il rimedio tradizionale per lavarti via il gas lacrimogeno dagli occhi è il latte. Durante le proteste estive di BLM, le bacheche si infiammavano di discussioni sul fatto che il migliore sostituto vegano fosse il latte di mandorla o di avena. Era una presa in giro? Non esattamente. Le preoccupazioni altrui sono facili da sbeffeggiare, ma è importante non cominciare e finire con un’assurdità. Piuttosto, quello che conta è l’algebra della dissonanza cognitiva: l’incoerenza del manifestante moltiplicata dalla follia dello stato. E questa dissonanza controllata è ventriloquizzata nelle performance di Nora Turato.
Nora Turato interpreta testi lunghi venticinque minuti e realizza quadri. Nella sua performance più recente, presentata con l’evocativo titolo wow this huge wooden horse is great!, recita a memoria un testo di più di quattromila parole. Il testo salta dalla conferenza al cabaret, da meme frammentari a canzone, da intimi sussurri a sfacciate oscenità. Non è tanto un discorso quanto una raccolta di voci, un’operetta schizoide. Una parte del testo è sua, il resto sono citazioni, rimandi e appropriazioni, con sporadiche interruzioni a metà frase: per esempio, quando osserva, citando il frammentario stile di Facebook, “le persone che potresti conoscere hanno alzato la posta in gioco”. È quasi impossibile determinare dove si ferma lei e dove cominciano i torbidi flussi di informazione dal mondo, ma l’ontologia di questo universo si può sintetizzare con una delle sue battute: “tutto ciò che è commestibile viene dal grano, tutto ciò che è non commestibile viene dal petrolio”.
Al momento Internet abbonda di satire su Internet. C’è un intero genere di meta-commedia dedicato a fare battute su Internet, sulla follia dei meme, sulla insulsaggine degli influencer, sulla stupidità dei commentatori. L’arte dei troll a volte incarna la stupidità, a volte l’umorismo, e nel migliore dei casi scivola ambiguamente sul confine che separa le due cose. Ma non è questo che fa Nora Turato.
Nora Turato non presenta una arci-commedia per deridere il mondo di Internet. Piuttosto, fa da ventriloqua alla rete, quasi come se fosse incastrata in una seduta in cui non è riuscita a canalizzare i pensieri gocciolanti di un antenato morto da tempo, e a quel punto ha agguantato la manichetta antincendio della sua generazione. Il suo non è un discorso su Internet; è la voce di Internet, una desublimazione di sintomi, lo sciamanesimo come critica.
Il linguaggio, a volte, la attraversa, come se l’artista venisse violentemente suonata dai suoi stessi copioni. È come se Nora Turato si svuotasse per esibirsi. Per il genere che abita, ha perfettamente senso. Per costruire un sismografo sensibile, devi usare l’ago più leggero che trovi, in modo da trasmettere con la massima fedeltà tutte le vibrazioni della terra. All’interno delle performance dal vivo di Turato, il costante martellamento di citazioni è una specie di mosaico di spazi vuoti. I suoi testi la incatenano, ricordando la vecchia formula psicanalitica secondo cui il linguaggio è un alieno che infesta i nostri corpi. A volte, mentre li recita, lei sembra accelerare e decelerare il linguaggio, come un animale che cerca di divincolarsi da collare e guinzaglio. I respiri e gli accenti non appaiono sempre dove te li aspetteresti, né le canzoni si distinguono chiaramente dalle imprecazioni. Lo scontro impari tra fisicità e prosa è accuratamente preparato. Lei registra i testi che scrive, li prova, li registra di nuovo, finché ogni gesto apparentemente spontaneo non rimane incrostato nel testo.
L’importanza del ritmo è evidente nei suoi video, in cui “interpreta” i testi proiettando le frasi su una parete. Ogni frase è proiettata per il tempo esatto che le serve a leggerla ad alta voce in una performance. Qui la velocità è un vincolo animale. Altrimenti, il testo viene presentato in una forma spogliata da qualsiasi sfumatura estetica. È quasi, ma non del tutto, ridotto all’informazione pura (ma a questo arriveremo fra un attimo). Solo l’avvicendarsi delle parole tradisce la fretta, tradisce le loro origini biologiche e storiche. Il suo processo consiste in una sequenza ossessivamente seguita di decisioni logiche che accumulandosi producono qualcosa di insensato (come lei stessa puntualizza, è proprio questa la follia).
Quando Nora Turato invece diventa riflessiva, cattura con poche pennellate l’ipocrisia dei nostri giorni:
questi tempi arroganti ci hanno
fornito una nuova falsa credenza
chiamiamola la trappola della riflessività.
è l’idea implicita, ma a volte persino esplicita, che
professare la consapevolezza di una colpa ti assolva dalla colpa stessa —
la denuncia a parole equivale alla resistenza.
il problema di questa
autoaccusa è che non risolve quasi mai le ansie che la
motivano. deridere le tue emozioni, o esprimere vergogna
o dubbio a riguardo, non nega per forza queste emozioni.
castigarti per l’ipocrisia, la vigliaccheria o il razzismo
non ti rende per forza meno ipocrita, vigliacco o razzista.
La trappola della riflessività, l’idea che pubblicizzare le tue colpe costituisca un’espiazione, è forse uno degli effetti collaterali più bizzarri dell’intera soggettività rovesciata di Internet, in cui la vita interiore viene trasmessa come “contenuto” e la vita produttiva sparisce nel codice. L’interpretazione che offre Nora Turato della trasversalità sembra una specie di incubo, il risvolto di modelli algoritmici di marketing, in cui le diverse identità coltivate online cominciano a entrare in dissonanza. Lungi dall’essere forieri della liberazione totale, i nostri avatar conflittuali hanno prodotto un caos intestino.
Nella nostra conversazione, avevo pensato di chiederle dei font dei suoi quadri. I primi lavori di Nora Turato giocavano esplicitamente con l’aspetto degli avvisi sanitari sui pacchetti di sigarette. I nudi riquadri, con il vacuo testo Helvetica, che in tutto il mondo coprono non meno di un terzo della confezione con chiari slogan nella lingua del paese in cui sono vendute: Il fumo uccide; Roken is dodelijk; Pušači umiru mlađi. Per Nora questi messaggi possiedono un fascino speciale. Le ricordano la scena di quel film di culto degli anni Ottanta di John Carpenter, Essi vivono, in cui il vagabondo inforca gli occhiali magici e vede le pubblicità intorno a lui trasformarsi in una dichiarazione in caratteri senza grazie del loro significato decodificato: “Obbedisci”, “Sposati e riproduciti”, e così via. Il punto dei pacchetti di sigarette è che per certi versi diventano più attraenti in virtù dei loro messaggi di autodenuncia. In accordo con i principi della trappola della riflessività, annunciano tutto ciò che in loro c’è di orribile, pur continuando a essere velenosi. E questa capacità di essere malvagi e non nasconderlo, e ciononostante sopravvivere, che altro è se non una specie di eleganza?
Questo ci riporta all’informazione. I lavori testuali di Nora Turato ne fanno un giocattolo. Sono frasi estrapolate dalla sua performance e presentate in Helvetica Standard su lastre laminate che fluttuano a una certa distanza dalla parete, come schermi. “vai, non darci niente,” dice un laconico comando. Queste frasi, separate dal contesto, smettono di essere comunicative. A malapena appartengono al linguaggio. Non sono significanti, pezzi di linguaggio che puntano a uno stato di cose nel mondo. Infrangono il rapporto standard tra testo e immagine. Non sono didascalie per immagini assenti, né servirebbero immagini per illustrarle. Sono solo parole. Espressioni idiomatiche con i loro limiti. L’ultima volta che le parole hanno stabilito un rapporto così strano con l’immagine è stato nel saggio di Foucault su Magritte e i calligrammi (“Questa non è una pipa”), ma quel saggio parlava dell’eccesso semiotico, e questo della deficienza semiotica. Guardando i suoi lavori sulla parete, mi trovo in una galleria piena di geroglifici. “È incredibile che tu sappia digitare parole quando non sai nemmeno leggere”, potrebbe rispondere lei.
la filosofia prevalente qui oggi è una specie di positivismo
che tratta il raggiungimento della verità come una semplice questione di
raccolta dati: più fatti abbiamo a disposizione, più vicini siamo
a un’immagine completa della realtà.
Tutto ciò è ben lontano dallo spiegare per quale motivo Nora Turato non sia ironica. L’ironia suggerisce un’aura di superiorità, il lusso del distacco. Piuttosto, qui siamo vicini a un’affermazione di sfida, anche se abbiamo afferrato il promemoria che la resistenza è futile. Il leviatano nella cui pancia siamo intrappolati non è ostile alla nostra esistenza, ma più che mai dimentico di noi.
dimmi un po’ chi muove il caos?
il caos si muove da solo, signore
Il caos ha tanti nomi: storia, capitalismo, potere. Nessuno di loro rivela qualcosa di importante. Ma ciò non significa che possiamo arrenderci e basta, o che dovremmo smetterla di protestare, anche se, quando ci hanno lanciato i lacrimogeni, non sapevamo nemmeno di protestare. Non sai perché stai piangendo e scappando, ma a un certo punto ti ricordi che stamattina hai indossato delle buone scarpe da ginnastica. Forse è questa la ragione. Continui a correre.