L’atto cognitivo della lettura è il risultato di molteplici processi morfologici, fonologici e semantici che il nostro corpo porta avanti simultaneamente. In tal senso, leggere è già un’interpretazione, un’azione performativa.
La ricerca di Ode de Kort si inserisce direttamente all’interno di tali processi di decodificazione simbolica. Creando immagini-sculture e alfabeti coreografici, l’artista spinge la nostra attenzione verso una lettura estetica, prima ancora che semantica, della propria poesia visiva.
La mostra presso SpazioA può essere letta come un manuale introduttivo all’alfabeto dell’artista belga, da sempre interessata a osservare le molteplici possibilità formali delle lettere “O” e “U”, intese come co-autrici della propria ricerca scultorea.
Sagome di corpi, lettere scomposte e apostrofi di ferro si trovano a interagire sulle pareti bianche della galleria, la cui neutralità si avvicina alla dimensione della pagina vuota, palcoscenico ideale per mettere in scena la propria coreografia testuale.
Le braccia e gambe dell’artista si trovano così riprodotte a grandezza naturale, poste a confronto con le morbide forme del suo alfabeto monosillabico. Il dialogo che deriva è teso a sciogliere i contorni di entrambi i linguaggi, facendo dimenticare al corpo e alle lettere i propri confini e i propri doveri.
In questa momentanea perdita di senso, il linguaggio verbale si ammorbidisce. Le lettere, ricordandosi di essere prima di tutto forme, si mostrano come oggetti plastici. Mentre la frammentazione del corpo dell’artista in simboli e pose geometriche ne stimola una lettura sintattica, spingendoci a intuire le regole grammaticali di questi geroglifici contemporanei.
L’uso dei bassorilievi fotografici, oltre a sostituire il corpo dell’artista assente, serve inoltre a concentrare la coreografia in un testo sintetico, capace, come una personale stele di Rosetta, di offrire una lettura comparata delle proprie vocali scultoree.
Le frasi che ne derivano sono incorniciate da lunghi filamenti di ferro dalle forme ondulate, che, come apostrofi, collegano e separano i singoli elementi del proprio vocabolario plastico. Queste sottili tracce di metallo, calando dal soffitto, aiutano a riverberare i contorni dell’alfabeto e le linee degli arti nello spazio tridimensionale della galleria, lasciando che sia il movimento del nostro corpo e della nostra percezione a completare questo dialogo performativo.