Lo sguardo dall’interno
Del 1972 è la sala che provocò un grande scandalo alla Biennale di Venezia con l’opera 2a soluzione d’immortalità (l’universo è immobile). Simone Carella, a Venezia come assistente di Gino De Dominicis, racconta: “Gino considerava la sala una summa, ma non aritmetica, delle cose che aveva fatto sino ad allora. Una delle ragioni per cui la sala fu scelta è che si apriva sul giardino, dunque ci si poteva arrivare senza passare attraverso le altre sale. Sul tetto c’erano lucernai che erano stati oscurati, la prima cosa che Gino fa è chiedere di togliere l’oscuramento ai lucernai per avere la luce del giorno. La luce naturale, la porta che si apre sull’esterno: l’opera doveva essere a contatto con l’universo. Poi mi chiede di cercare una persona che deve rappresentare questa seconda soluzione d’immortalità, un giovane che abbia conservato l’aria di un bambino”. L’immortalità è possibile bloccando il tempo. Questa è la medesima istanza di altri lavori di De Dominicis, come il gatto presentato con un cartellino-didascalia all’Attico o come Che cosa c’entra la morte?1 Al di là della sottile distinzione tra immortalità ed eternità, quello che interessa l’artista è “la fissità del momento del presente, la percezione dell’attimo” (Carella). La persona scelta incarna una soluzione d’immortalità. “Non avendo ricordi, memoria, né percezione del futuro è, ovviamente per paradosso, immortale” (Carella). Secondo Renato Barilli, che aveva invitato l’artista alla Biennale, Paolo Rosa è “persona che ha superato la ‘cura’ in senso heideggeriano, rappresentazione dell’età dell’innocenza. De Dominicis aveva alcune idee fisse, capovolgere fatti come il principio di gravità, dare scacco matto al tempo rovesciando le leggi della fisica, ma poi i modi per visualizzare il concetto potevano variare”. Andando contro la gravità si va contro la mortalità. Infatti ai due lati opposti della sala, su due seggiolini posti molto in alto, le figure de Il Giovane (impersonato dallo stesso Simone Carella) e Il Vecchio. Secondo le parole di Carella la Palla di gomma (caduta da due metri) nell’attimo immediatamente precedente il rimbalzo è un elemento artificiale, ripieno di aria e allude a un tentativo di volo, la pietra (Aspettativa di un casuale movimento molecolare generale in una sola direzione tale da generare un movimento spontaneo del materiale) è invece un elemento naturale legato alla terra in attesa di un movimento ad essa aderente; oltre a questi oggetti, davanti a Paolo Rosa stava il Cubo invisibile. È evidente che la sala è un territorio magico (titolo del libro di Achille Bonito Oliva) dove regna una circolarità dello sguardo tanto è vero che nella (foto ricordo) appare una spettatrice nell’atto di inforcare un paio di occhiali. Di “punto di vista interno all’opera” ha parlato lo stesso artista. La sala stessa è costruita come interno, situazione non comunicabile. “La 2a soluzione aspira a creare una situazione in cui tutto è e resta com’è” (Gabriele Guercio) perché questo è il potere che De Dominicis attribuisce alle arti visive rispetto agli altri linguaggi. Per usare i termini della Lettera sull’immortalità, i tre oggetti passano dallo statuto di “verifiche” a quello di “cose esistenti” entrando nel campo visivo di Paolo Rosa. “Il disegno, la pittura, la scultura, materiali immobili e muti, sono ontologicamente l’opposto di tutti gli altri linguaggi artistici”.
Odissea da fermo
Sul tema dell’immortalità e del superamento dell’entropia Gino De Dominicis torna il 18 dicembre 1972 agli Incontri Internazionali d’Arte a Palazzo Taverna: “in occasione della serata è stato spedito un cartoncino, col quale si invita al cocktail per festeggiare il superamento del Secondo principio della termodinamica. Viene offerto un rinfresco servito in bicchieri di cristallo e in piatti di porcellana. Al muro sono affissi giornali con titoli sensazionali, che annunciano: L’uomo ha raggiunto l’immortalità del corpo” (Daniela Lancioni). “Non potendo intervenire direttamente su se stesso per fermare il corso inesorabile del proprio ‘tempo interno’ e allungare la propria vita, l’uomo ha inventato dei mezzi che lo rendessero più veloce: intervenendo così sullo spazio, indirettamente è riuscito a intervenire sul tempo. Questa operazione potrebbe essere giustificata però solo se lo spazio fosse finito e la nostra fantasia limitata. Purtroppo invece è solo un palliativo e un gravissimo errore” (dalla Lettera sull’immortalità). Queste parole, oltre a costituire la migliore spiegazione per Il tempo, lo sbaglio, lo spazio, sono anche una buona introduzione alla Poltrona per un viaggio nello spazio. L’artista modifica una poltrona del tipo di quelle da barbiere aggiungendo una sorta di attacchi da sci ai piedi e apponendo un cartellino con una dicitura che fa riferimento al doppio movimento, di rotazione e di rivoluzione, della Terra. Chi si siede, attraverso la lettura del cartellino, subisce la suggestione di intraprendere un viaggio nello spazio, viaggio che effettivamente stiamo compiendo legati alle evoluzioni terrestri.
Nel 1975, alla galleria Lucrezia De Domizio a Pescara l’ingresso è interdetto al pubblico: Mostra riservata agli animali. È evidente che De Dominicis, negli animali come già in Paolo Rosa, è in cerca di modelli alternativi al destino dei mortali, paradigmi dell’immortalità del corpo.
Quasi a voler fermare il tempo, De Dominicis opera una scomparsa e riapparizione nella galleria di Pio Monti a Roma: “Ricordo le due mostre, identiche, ripetute a distanza di un anno, 14 gennaio 1977/14 gennaio 1978, con una pietra enorme, un’asta in bilico, due vasetti che rappresentavano l’ubiquità, una piramide invisibile!” (Monti). Nelle successive mostre alla galleria Monti, nei primi anni Ottanta, l’artista presenta il Lampadario antientropico e Sbarre violate. “Aveva fatto alcuni quadri che poi aveva distrutto e ne aveva messo i resti in un sacco di plastica poi appeso al soffitto. Invece di fare luce faceva ombra” ricorda il gallerista: l’energia non viene dispersa, dunque non c’è entropia. Sbarre violate è una grata che ha subito una leggera deformazione, reca le tracce di un’evasione, di una presenza che si è trasformata in assenza.
Nell’aprile 1979 la galleria di Mario Pieroni a Roma inaugura “11 statue di G. De Dominicis”: si tratta di uomini invisibili, come già i solidi geometrici, segnalati da ciabatte e cappello di paglia; materiali leggeri, quasi il segno del passaggio all’invisibilità.
Pictor maximus
La malia di un volto che nasce da gorghi di segni sottili e sapienti. Il fascino di uno sguardo che apre sul mondo esterno e su quello interno: questa può essere l’introduzione all’opera pittorica di Gino De Dominicis. Il disegno è un punto cardine nel suo lavoro, che tuttavia non esclude altre forme d’espressione. Al disegno e alla pittura si accostano elementi tridimensionali; l’asta, ad esempio, torna più volte. Tuttavia, il segno di De Dominicis rivela sorprendentemente una mano nata per disegnare. Nelle sue opere e soprattutto nei disegni ricorre spesso il volto umano e prevalentemente la figura femminile, ricollegandosi a un tema della tradizione artistica piuttosto in disuso nell’arte contemporanea (come l’artista stesso faceva notare). Nella pittura in cui tanto credeva ha raggiunto la massima complessità e la massima armonia con l’uso, quasi paradossale, di semplici, tradizionali ed essenziali mezzi: la tavola, la tempera, la matita. “Non posso precisare la mia percezione d’una cosa senza disegnarla virtualmente, e non posso disegnare questa cosa senza un’attenzione volontaria che trasforma notevolmente quello che prima avevo creduto di percepire e di ben conoscere. Mi accorgo che non conoscevo affatto quello che conoscevo: il naso della mia migliore amica”. È Paul Valéry, uno scrittore, a dire questo: non si conosce veramente una cosa senza disegnarla. Il disegno è la più diretta verifica del tradurre la manualità in forma. Nelle opere di De Dominicis questa verifica è lampante all’occhio dello spettatore. Il principio del disegno percorre l’intera opera e può presentarsi anche secondo un rovesciamento positivo-negativo, bianco sul fondo nero. L’aspetto mentale è molto forte in queste opere, quasi una messa in trasparenza di un pensiero visivo che recita In principio era l’immagine, come il titolo del grande quadro. Uno dei primi quadri del momento del ritorno alla pittura si intitola Io a Roma e colloca l’artista nel suo scenario naturale, contrassegnato dalla presenza dell’obelisco di piazza del Popolo. Ma un altro luogo affiora, la Mesopotamia, quella terra tra il Tigri e l’Eufrate che appare tra i profili di Urvasi (la dea indiana della bellezza) e Gilgamesh (il re-artista), la strana coppia maschile/femminile che riunisce in un ossimoro echi delle culture sumera e indiana. Molti quadri presentano l’accostamento cromatico nero e oro, molto amato dall’artista; un altro contrappunto cromatico è lo scontro tra il rosso e il nero, presente in molte opere. La figura sumera torna in una raggiera di segni in un’opera del ’94. Le matite su tavola presentano incredibili sorprese, dalle più scarne, come la figura “gobba” (’96-’97), o il volto visto sottinsù, visione parziale di una sfinge dal collo lungo il cui contorno è stato realizzato senza mai staccare la matita, alle più complesse, come la coppia trasfigurata in figura unica del ’91. Tra le matite su tavola appare anche il ghigno di una figuretta dagli occhi strabici e basculanti, un’invenzione formale costruita con grande forza di sintesi. In un quadro di grande delicatezza, l’evanescente uomo con il cappello si volge a contemplare infinite lontananze. Un vero pezzo di bravura è costituito dalle pochissime opere con le nuvole, tra cui un quadro di grandi dimensioni, di cui l’artista parlava spesso, una pittura che si fa cielo, corporea e incorporea insieme. Ogni quadro è una sfida, risolve un problema.
Il percorso dallo sguardo alla mano non è diretto: “Parecchi circuiti intervengono: tra questi la memoria. Ogni occhiata al modello, ogni linea tracciata dall’occhio diventa elemento istantaneo di ricordo, e proprio a un ricordo la mano sulla carta va a chiedere la sua legge di movimento. Si manifesta la trasformazione d’un tracciato visuale in un tracciato manuale” (Valéry). Il disegno è filtrato dalla memoria e dalla memoria emergono soprattutto figure umane e soprattutto volti. “Ora, l’espressione spirituale, sebbene debba riversarsi sull’intera apparenza corporea, si concentra soprattutto nella configurazione del volto” (Hegel). Nelle opere di De Dominicis c’è sempre uno scarto in un particolare della parte più importante: il viso e in alcuni casi lo scarto è costituito dal naso, l’elemento che collega la parte alta e più spirituale del viso a quella bassa, che si allunga a dismisura. Questa deformazione, che è nata disegnando, appare anche nel grande scheletro che giace immobile, iperbole di una figura umana ridotta all’osso, diverso solo per quell’appendice, il naso, che nello scheletro è la parte mancante (Calamita cosmica).
I linguaggi delle arti figurative sono caratterizzati dal rapporto con la materia e l’immobilità, secondo l’artista. Alcune tematiche ricorrono e la pittura diventa una materia atta a dar loro corpo. Così nel lavoro con le foto dell’uomo giovane e vecchio, l’arco temporale è reso in un’intuizione simultanea. Analogamente, in un lavoro di molti anni dopo, un disegno su tavola, una coppia regale appare davanti a una città, mentre accanto levita una figura che ha il corpo di bambina e il viso di vecchia. Questa invenzione formale è un’immagine sintetica, che copre l’intero arco temporale: le forme mute e immobili vivono nella dimensione di un assoluto presente che tutto racchiude: questa è l’essenza della pittura.