Luca Panaro: Variare il punto di vista sui luoghi ti ha aperto nuove prospettive di ricerca, ha permesso di vedere città conosciute come mai si erano osservate prima. Le riprese fotografiche e filmiche, spesso ottenute dall’elicottero, l’utilizzo di una particolare tecnica che permette di mantenere a fuoco solo alcuni punti dell’immagine, sono ormai elementi distintivi della tua più recente produzione. Quando e come nascono queste scelte?
Olivo Barbieri: Nel 1999 ho realizzato, in India, un progetto per la galleria di Natalina Remotti a Milano. Poi per la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, una serie di lavori che avevano per soggetto gli stadi italiani durante le partite di calcio. Da tempo pensavo ad alcune opere pittoriche di Gerhard Richter che rappresentano paesaggi completamente sfocati. Ho iniziato così in Oriente a produrre delle immagini che fossero solo parzialmente sfocate. Mi resi conto che in questo modo le architetture e le città diventavano dei plastici, sembravano dei modellini in scala. In seguito ho realizzato parecchi progetti raccolti nei volumi Virtual Truths (2001) e Notsofareast (2004). Nel 2004 sono stato invitato dal Festival Internazionale della Fotografia di Roma e ho realizzato un film in 35mm e una serie di fotografie con l’ausilio di un elicottero; prese avvio il progetto “site specific_” che mi portò a Montreal, Shanghai, Amman, Las Vegas, Los Angeles, Siviglia, New York, San Francisco, Brasilia, Bangkok, e in Italia a Torino, Modena, Milano, Firenze, Catania, Genova, Napoli e Venezia. Ho cominciato a servirmi di un elicottero per allontanarmi dal suono delle parole, per vedere le città da lontano, lontano dalle voci: mi interessa la forma delle città.
LP: Nell’attuale spazio urbano e sociale la distinzione tra realtà e finzione è sempre meno riconoscibile, in alcuni casi addirittura potremmo dire che è la realtà a imitare la finzione. Questo almeno è quello che oggi dicono filosofi, antropologi, sociologi e che anche tu sostieni in una parte del progetto “TWIY”, realizzato nel 2008 per il Museo di Capodimonte a Napoli.
OB: Sono parecchi gli artisti che costruiscono delle scenografie al fine di trasformarle in visioni “reali” per mezzo della fotografia, da Thomas Demand a Paolo Ventura, e hanno molto successo. I filosofi e i sociologi, non ultimo Jean Baudrillard, suggeriscono di fare attenzione agli oggetti, perché ci stanno guardando, e forse giudicando. Teorici dell’architettura sostengono che da tempo le città contemporanee sono degli organismi viventi che si trasformano autonomamente, fuori dal nostro controllo. La realtà sicuramente imita la finzione; attraverso il romanzo, il cinema, la televisione e ora anche Internet, vengono immaginati e inventati dei modelli, degli stili di vita, a cui la realtà dà vita. Proprio come nel progetto “TWIY”, dove trasformando in pittura gli ultimi tre minuti e trenta secondi del film Scarface, scritto da Oliver Stone e diretto da Brian De Palma nel 1983, “accade” che una villa di Miami, vista in un film hollywoodiano, diventi una villa reale con palme e piscina a Casal di Principe in Campania. Vivere in differita è un’arma sociale di rimozione del memento mori: hai notato quanti teschi con diamanti e non nell’arte contemporanea degli ultimi anni?
LP: Nell’altra parte di questo progetto soffermi invece la tua attenzione sui dipinti conservati nel museo, così come avevi già fatto, anche se in modo differente, con le opere custodite alla Galleria degli Uffizi di Firenze. A quali conclusioni sei arrivato mettendo a confronto queste immagini provenienti dal passato con quelle ottenute oggi, frutto dell’osservazione del nostro tempo?
OB: Il progetto sul Museo di Capodimonte forse chiude una trilogia, ma me ne accorgo solo ora. Il mio primo lavoro, Flippers (1977-78), racconta il ritrovamento di un deposito distrutto e abbandonato dove si assemblavano bigliardini elettrici. Attraverso quegli oggetti e le immagini che li animavano è possibile ridisegnare la storia del secolo passato: c’è tutto l’immaginario della modernità, dai cowboy alla fantascienza, dai dinosauri ai Beatles, dalle pin up ai clown, dal deserto alla città tentacolare, ecc. Questo primo lavoro fu anche la mia prima mostra alla Galleria Civica di Modena, con un testo di Franco Vaccari. Quel luogo era l’unico museo che desideravo frequentare in quegli anni.
Con Paintings (2002) entro nella Galleria degli Uffizi, guardo i quadri come fossero delle finestre e ne distruggo la bidimensionalità; trasformandone la profondità di campo ritornano tridimensionali. In realtà nel Museo di Capodimonte non entro, lavoro solo sugli archivi fotografici, esattamente sulle antiche lastre negative di vetro (come i vecchi flipper) che attraverso il loro tempo, i loro graffi, congelano un passato tangenziale alle opere pittoriche che rappresentano. Eseguendo scansioni ad alta definizione, collego questi due tempi e costruisco una terza dimensione. Le immagini si muovono più velocemente nel tempo che nello spazio. Capirlo è stato importante e mi ha aiutato a trovare un punto di vista nel nostro tempo.
LP: Tornando al progetto “site specific_”, e scorrendolo dal 2004 a oggi, si nota un progressivo allontanamento dalla fotografia; parliamo piuttosto di immagini che tendono a volte alla calda policromia pittorica, altre volte al freddo segno monocromo tipico della grafica. A cosa è dovuto questo cambiamento?
OB: È dovuto alla sparizione del punto di vista, all’aggiramento delle regole della prospettiva, alla ricerca di un punto d’essere (vedi Derrick de Kerckhove), oppure, citando le parole di William Seward Burroughs: “Nulla è proibito, tutto è permesso”. È un ritorno al disegno, alla forma scarnificata delle cose, allo schizzo che immagina il progetto.
LP: Ormai affianchi sempre più l’immagine in movimento a quella statica, anche all’interno dello stesso progetto: site specific_ROMA 04, site specific_SHANGHAI 04 e site specific_LAS VEGAS 05 hanno i loro corrispettivi video, quest’ultimo è stato anche presentato al San Francisco Museum of Modern Art nel 2008. Da dove nasce l’esigenza di mostrare l’immagine filmica a fianco di quella fotografica?
OB: La produzione di immagini avviene in un limbo traslucido che sta tra il cielo e la terra. Le immagini si fanno e si guardano con strumenti telefonici, mi ricordo quando Umberto Eco agli albori delle radio libere redarguiva “la radio non è un telefono”; ora tutto è telefono, anche le immagini. Non vedo differenza tra le immagini ferme e quelle in movimento, non esistono immagini ferme.
LP: Le metropoli di oggi riprese dall’alto sono la giusta continuazione del lavoro intrapreso negli anni precedenti, quando fotografavi le piazze, i centri commerciali e gli stadi popolati da una moltitudine di persone, oppure, ancora prima, quando mostravi le città trasformate dall’illuminazione artificiale. Già allora la tua ricerca si manifestava come la sottile indagine di uno studioso capace di restituire, con discrezione, le caratteristiche più salienti del nostro sistema di vita.
OB: Sono stato molto fortunato, riguardando cronologicamente la mia produzione scopro spesso una insospettata coerenza e preveggenza. Nei lavori vecchi c’è già in nuce quello che poi è arrivato, forse per questo trentadue anni di lavoro sono durati un attimo. Mi chiedo però continuamente se i nostri metodi percettivi siano adatti a decifrare il reale.
LP: Dal 1989 viaggi abitualmente in Oriente, soprattutto in Cina. È forse la profonda conoscenza di questa cultura ad averti offerto gli strumenti necessari per cogliere, anche nel resto del mondo, la rapida trasformazione operata dall’uomo sull’ambiente?
OB: La Cina è stata importante perché mi ha mostrato quotidianamente che le regole non esistono, mi ha messo davanti a dimensioni e numeri da noi non considerati. A valori e codici morali per noi inediti. Vedere che esiste un altro modo di intendere il nostro breve soggiorno sulla terra, esercitato in grande scala e con grande energia, ti fa capire molto e rapidamente sull’hic et nunc che spesso ci paralizza. Ogni volta che ritornavo dall’Oriente mi si apriva uno squarcio sull’Occidente e mi mettevo al lavoro. La conoscenza di queste megalopoli e le incognite legate alla sostenibilità mi hanno indotto a realizzare The Waterfall Project, un racconto dell’acqua attraverso le quattro cascate più importanti del pianeta.
LP: Sei attualmente impegnato nel progetto “A Different Altitude”: sei interventi e altrettante mostre e cataloghi site specific — su Milano, Catania, Firenze, Genova, Napoli, Venezia. Hai preparato per il Padiglione Toscana all’Expo universale di Shanghai 2010 un film sull’energia (TUSCANY in 6 pieces 2010), in collaborazione con EX3 Centro per l’Arte Contemporanea di Firenze; inoltre, hai appena iniziato le riprese per un film sulle Dolomiti. Ulteriori progetti per il futuro?
OB: Un libro e una mostra dal titolo Viaggi in Italia 1982-2010, dove raccolgo una selezione di lavori realizzati in ventotto anni, in cui ho percorso letteralmente da nord a sud il mio Paese. Inoltre sto preparando la mia seconda retrospettiva, dopo quella del 1996 prodotta dal Museum Folkwang a Essen.