Beatrix Ruf: Il 2012 è stato per te un anno molto intenso. Partiamo da dicembre, quando hai presentato i risultati di una residenza di quattro settimane nello spazio della Rubell Family Collection a Miami. In questa occasione è stato pubblicato il tuo primo catalogo monografico, hai realizzato un’edizione speciale della rivista Kilimanjaro, e sei apparso sulla copertina di una rivista d’arte locale — un ritratto che spudoratamente faceva riferimento all’eredità di Jean-Michel Basquiat, suggerendo le tue radici colombiane e la tua esperienza come uomo delle pulizie a Londra. Come ti rapporti a questi fenomeni?
Oscar Murillo: Indubbiamente lo scorso anno è stato carico di progetti, e come giustamente hai annotato, la presentazione alla Rubell Family Collection è stata una piattaforma eccezionale per la contestualizzazione del lavoro. Dopo dicembre ho repentinamente lasciato Miami e viaggiato verso la Colombia — si è trattato più che altro della necessità di fuggire da certe supposizioni a proposito della mia origine e della mia posizione di artista, nonché da romantiche speculazioni sulla mia vita da uomo delle pulizie. Personalmente penso che non ci sia nulla di idealistico nella vicenda di una persona che si mantiene lavorando per un settore produttivo fondato sul lavoro meccanico; è una soluzione pratica al problema di portare avanti una pratica artistica, sopravvivendo in una metropoli come Londra. La Colombia mi ha offerto tanto tempo e spazio per riflettere, e simultaneamente incamerare nuova energia prima del ritorno in Europa. Paradossalmente, nel piccolo villaggio dove sono cresciuto, nessuno ha idea di chi sia Basquiat, o di chi sono io. In Colombia, per legge, si prende il cognome del padre. Trovavo la cosa un po’ maschilista, e quindi ho scelto di usare il cognome di mia madre, Murillo. Credo che gran parte del pubblico americano ami tratteggiare come glamour queste situazioni esotiche, ma manca di esaminarle approfonditamente, e così finisce per approdare a convinzioni distanti da dove l’eredità di Basquiat effettivamente risiede. A gennaio 2013 sono ripartito a pieno ritmo. Ho cominciato l’anno con una mostra personale molto entusiasmante a Rotterdam, allo Showroom MAMA, e con una mostra collettiva al CRAC Alsace, organizzata da CO-CO. Entrambi i progetti erano legati in maniera semplice. Ho messo in piedi una “Bingo Boutique” dove magliette ispirate alla mia performance del settembre precedente alla Serpentine Gallery di Londra (The Cleaners’ Late Summer Party with COMME des GARÇONS) erano in palio per la partecipazione a tornate settimanali di bingo.
BR: Parliamo di categorie e “categorizziamo” un po’ di più: il tuo lavoro è prevalentemente interpretato nella categoria della pittura, ma molte delle tue attività prevedono azioni performative, de-contestualizzazioni di eventi comunitari, festeggiamenti, ecc. Potresti spendere qualche parola a proposito?
OM: Per un po’, forse più che dalla pittura, sono stato “preso” dallo sviluppare progetti nell’ambito della ri-contestualizzazione culturale. Questi progetti hanno a che fare con il desiderio di prendere alcuni aspetti aggregativi di una cultura o dell’altra, o altri universalmente condivisi come una festa di compleanno, e riproporli in situazioni che possono spesso causare un disagio iniziale, e quindi sottolineano quella che trovo una disabilità aggregativa diffusa in fette della nostra società. Questa sensibilità è effettivamente emersa circa quattro anni fa, quando ho completato un programma di residenza di un anno presso i Kingsgate Workshops a Londra. La residenza mi mise a disposizione una somma da spendere viaggiando all’estero per visitare musei; ma io decisi di investire il denaro in un progetto a più riprese che coinvolgeva la mia famiglia e la sua comunità di riferimento — in occasione del primo evento, invitai membri della comunità somala della zona a prendere parte a una visita ai Kew Gardens, nella periferia ovest di Londra. Il progetto fu un catalizzatore, che evolse in vari interventi culinari, alcuni dei quali ebbero luogo in gallerie. Uno dei più memorabili fu Animals die from eating too much, Bingo! (2011) da Carlos/Ishikawa: i partecipanti a un tour di gallerie furono invitati a mangiare cibo colombiano e giocare a bingo. I premi del bingo erano ispirati ai riots londinesi di quell’anno, oggetti che avevano legami simbolici con quelli resi popolari dai protestanti. A quell’evento seguì Animals die from eating too much, Yoga! I titoli sono affini perché i due progetti ebbero luogo a distanza di una settimana l’uno dall’altro, e gli elementi del primo furono riutilizzati nel secondo — per esempio, le cartelle del bingo furono convertiti in poster, i tavoli in tappetini, ecc.
All’inizio del 2012, ad Art Rotterdam, l’intero stand di Carlos/Ishikawa fu trasformato in un’arena dove due amici “socializzavano” con champagne e canapè, mentre realizzavano pile di dipinti con numeri randomici ispirati al bingo e guardavano video YouTube, mandati in streaming da altri amici in Colombia… Più o meno nello stesso periodo, la Serpentine Gallery mi ha invitato a interagire con la mostra di Lygia Pape nei loro spazi. Lì ho utilizzato un carrello delle pulizie stipato di caramelle, patatine, bevande e sigarette, offrendo ai visitatori l’occasione di goderne mentre giravano per la mostra… Progetti più ambizioni si sono succeduti nell’estate dello stesso anno ad Arles, con il benestare della LUMA Foundation: nell’anfiteatro romano della città, per una settimana, ho sperimentato diverse attività, come percorrere il perimetro della struttura per un’ora mentre la mia playlist musicale era diffusa dall’impianto audio.
Successivamente ho organizzato una festa di compleanno fittizia per i miei genitori tra la Colombia e Londra; che poi è stata replicata a Parigi, ospitata nell’appartamento, alquanto lussuoso, di un collezionista… E poi ancora The Cleaners’ Late Summer Party with COMME des GARÇONS, alla Serpentine Gallery, che ho già menzionato.
BR: Movimenti, migrazioni, attività fisica, tutti giovano un enorme ruolo nel tuo lavoro. Ma allo stesso tempo hai anche una pratica da studio. Ricordo che una volta abbiamo guardato insieme i tuoi disegni, che sembrano risultare da stratificazioni di tante attività che “performi” nello studio. Come lavori nello studio?
OM: La mia pratica di studio può essere esemplificata, non nell’idea warholiana di produzione di massa, ma nell’attenzione al coinvolgimento diretto. Lo scenario della fabbrica è strettamente legato alla mia crescita: se fossi rimasto a vivere in Colombia, probabilmente lavorerei nel “bar” della Colombina, la fabbrica di caramelle, come i miei amici che lavorano lì chiamano l’area dove tutto lo zucchero liquido è versato su un tavolo prima di essere manipolato da due giganti braccia di acciaio. Metaforicamente parlando, nello studio salto da un procedimento all’altro, solo a malapena prendendo in considerazione idee formali per un dipinto. Costantemente manipolo materia — faccio segni, tingo tele, piego materiali — e faccio sempre riferimento alla cucina quando parlo delle mie metodologie di lavoro.
Si tratta di un campo da gioco a “frequenza singola’”, a un solo strato: ovvero, non ci sono così tante gerarchie. Quindi, il lavoro si riversa in lavoro, e questo contraddittorio modo di essere controbilancia altre modalità più effimere di produrre lavoro — ma c’è sempre un forte sovrapposizione tra i due processi.