Giunto al quinto appuntamento negli spazi in coda all’Arsenale, il Padiglione Italia continua a non convincere chi pensava che la sua riedificazione potesse restituire all’arte italiana la posizione centrale che in teoria le dovrebbe competere. “Codice Italia”, un titolo vagamente retrò e tutto sommato retorico all’interno di una cornice che già per definizione dovrebbe assolvere il compito di esaltare la creatività nazionale, manifesta un’inaspettata affinità con la mostra centrale di Okwui Enwezor nel desiderio di combattere l’architettura esistente a favore di una suddivisione modulare, riservando uno spazio personale di misure analoghe a ognuno dei quindici artisti invitati. Se tale soluzione espositiva ha l’indubbio merito di responsabilizzare questi ultimi, conferendo un’opportunità di esporre il proprio lavoro senza lasciar adito a troppi compromessi o furbizie, dall’altro genera un’uniformità monotona e stridente, esteticamente più vicino a un’installazione di matrice fieristica che a quella di una grande mostra.
Visto il numero di artisti presenti, l’idea potrebbe avere anche una sua logica, ma qui ci si ricollega al vero punto dolente, e cioè al fatto che il Padiglione Italia, indipendentemente da chi lo organizza, sembra incapace di affidarsi a una presentazione che non sia un affollamento di nomi con una connessione tenue tra loro e il tema con cui si devono misurare. I difensori di questa scuola di pensiero, che sostengono che tale percorso è una risposta naturale alla scarsa rappresentanza di artisti nostrani nella mostra principale, dovrebbero forse iniziare a riflettere sulla differenza che c’è tra quantità e qualità. La storia recente della Biennale di Venezia ha dimostrato in più di un’occasione che i padiglioni memorabili non sono quelli che ambiscono a fare un punto della situazione globale (un compito oggettivamente fuori dalla loro portata, a meno che non si parli di paesi con una storia recente sconosciuta o particolarmente traumatica) ma quelli che fanno emergere una forte visione personale che si relaziona con il luogo di provenienza per immaginazione e non per statuto. L’esercizio di indagare concetti monumentali come la memoria e il bisogno di sperimentazione del fare arte potrebbe avere anche una sua ragione di essere, ma il coro di voci discordanti a cui si chiede di celebrarlo non produce varietà o pluralismo, ma soltanto una caricatura dei tratti che compongono la mostra principale, oltre alla spiacevole sensazione di vedere i partecipanti ridotti all’ingrato ruolo di comprimari anziché di protagonisti. Un’ulteriore conferma di questo fatto viene dalla sezione “Omaggio all’Italia”, un prologo superfluo e esuberante che dovrebbe insaporire ulteriormente il piatto offrendo un’autorevole prospettiva esterna e che invece finisce con il provincializzare ulteriormente il tutto. È ovvio che se analizzata a frammenti, come richiede (o forse si dovrebbe dire impone) la sua disposizione, “Codice Italia” non è priva di momenti felici, ma l’insieme è deludente. Anche una decisione intelligente come quella di avere solo opere inedite non basta, soccombendo davanti alla messa in scena di una memoria che non riesce a smettere di considerare il passato come preferibile al presente. La scena internazionale conosce le risorse della cultura italiana e il valore dei suoi artisti meglio di quanto si pensi. È un peccato che il Padiglione Italia si ostini a volerne ritrarne anche i limiti.