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Biennale di Venezia

14 Ottobre 2015, 11:49 am CET

Padiglione Albania di Daniela Ambrosio

di Daniela Ambrosio 14 Ottobre 2015
Armando Lulaj, It Wears as it Grows, 2011. Still da film, 18min. Courtesy of Debatik Center Film / Artra Gallery / cinqueesei
Armando Lulaj, It Wears as it Grows, 2011. Still da film, 18min. Courtesy of Debatik Center Film / Artra Gallery / cinqueesei
Armando Lulaj, It Wears as it Grows, 2011. Still da film, 18min. Courtesy of Debatik Center Film / Artra Gallery / cinqueesei.

Il mio ricordo dell’Albania è fatto di scheletri e fantasmi: le case fatiscenti di Argirocastro, città natale di Enver Hoxha; le vecchie fabbriche dismesse che hanno il colore della ruggine; i bunker che sorgono come funghi da ogni parte, gusci vuoti di inattaccabile cemento armato. E poi la fortezza che sovrasta Porto Palermo, i binari ciechi di una ferrovia che non porta da nessuna parte e il museo Storico Nazionale di Tirana con la sua ala dedicata alla storia più recente chiusa, come se fosse necessario più tempo per assimilare gli ultimi avvenimenti.

La sensazione che si ha entrando nel Padiglione albanese, curato da Marco Scotini, che vede protagonista Armando Lulaj (Tirana, 1980) è molto simile: ad accoglierci c’è infatti lo scheletro (lungo 11 metri) di una balena, animale-simbolo nella Bibbia — pensiamo a Giona inghiottito e vomitato sulla spiaggia da un “mostro marino”, il Leviatano — nonché la creatura che riprende Hobbes nella sua omonima opera secentesca sullo Stato e la sovranità; senza dimenticare infine i riferimenti letterari, Moby Dick di Melville e il pesce-cane-balena di Pinocchio. Nella mitologia degli indiani d’America, la balena detiene la memoria di tutta la storia umana e del pianeta: è questo il punto di partenza del progetto di Lulaj, la memoria. Nella fattispecie, la memoria del popolo d’Albania, gli spettri del socialismo, la figura — sempre incombente – di Enver Hoxha. Una memoria che, dove lacunosa, incompleta, riscritta o da riscrivere, mette a punto uno stratagemma. Perché l’enorme scheletro della balena (in verità un capodoglio del Mediterraneo) al di là della sua profonda mitologia, è in realtà quell’“oggetto misterioso” che la marina militare albanese, in piena paranoia da Guerra Fredda, credeva fosse un sottomarino e quindi lo abbatté. Lulaj mette in scena una trilogia fatta di storie, di inganni, di spazi vuoti, scarnificati, di oggetti feticcio — oltre alla balena, l’aereo della US Air Force divenuto simbolo della Guerra Fredda, il cosiddetto “American Spy Plane” abbattuto nel 1957 e conservato nel Museo delle Armi di Argirocastro. Never, infine, è un esplicito richiamo-anagramma al leader albanese che nel 1968, all’apice del potere, si era fatto installare su una montagna che sovrasta la città di Berati una scritta con il suo nome, ENVER. A nulla servì il napalm utilizzato nel 1993, in seguito alla caduta del regime, per cancellare quelle lettere: la storia non si cancella, tant’è vero che nel 2012 gli abitanti del villaggio si armarono di vernice e pennelli per riscrivere il tanto vituperato nome che così, nel lavoro di Lulaj, si trasforma in never, mai. Mai dimenticare la storia, anche quando non ci piace.

Daniela Ambrosio è redattrice di Flash Art Italia. Vive e lavora a Milano

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