Shirin Neshat: Nel tuo lavoro una parte della ricerca è radicata nella tradizione classica, ma allo stesso tempo riesci a costringere il fruitore a una lettura concettuale che rompe con tutte le convenzioni. Pensi che questa sia una lettura esatta del tuo lavoro?
Paolo Canevari: La mia formazione si può certamente definire accademica: ho studiato a Roma — Liceo Artistico e in seguito Accademia di Belle Arti — poi pittura per tre anni nell’atelier di Riccardo Tommasi Ferroni, artista figurativo, grande grafico legato alla tradizione cinquecentesca toscana. Il mio bisnonno era pittore, mio nonno pittore, mio zio scultore, mio padre anche lui era scultore. Dunque l’approccio tradizionale all’opera d’arte sicuramente fa parte del mio dna, e questo mi ha spinto a una ricerca e a uno sviluppo concettuale del mio lavoro, tenendo conto delle idiosincrasie tra tradizione e contemporaneo.
SN: Tutto il tuo lavoro ha un aspetto politico radicale, e al contempo riesci a mantenere questo lato ambiguo, rendendo difficile per il pubblico trovare un’interpretazione. Come spieghi questa relazione tra potere e politica?
PC: La mia intenzione è quella di non dare un’interpretazione unica del mio lavoro, cerco sempre di scardinare i luoghi comuni del pensiero imposti dalla politica, dalla religione e da un pensiero borghese individualista; dico questo perché penso che l’arte abbia un valore collettivo e non individuale, l’arte è un linguaggio democratico e progressista, dunque idealmente a servizio della società e non del potere. L’utilizzo nel mio lavoro di icone, simboli o forme che fanno parte di diverse culture è un modo per attrarre l’attenzione sul loro vero significato, legato a dogmi o al potere, e stabilire così un dialogo con lo spettatore in modo da stimolarne una reazione.
SN: Tre ossessioni principali tornano spesso nel tuo lavoro: sesso, politica e religione. Pensi che questa sia un’interpretazione giusta, accurata? E se è così, come definisci la relazione tra questi tre aspetti/tematiche?
PC: Come essere umano ho delle preoccupazioni che riguardano il mio presente e il mio futuro, l’influenza del potere politico e religioso ha creato dentro di me un’ossessione che si riflette, naturalmente, nelle opere che realizzo. La mia educazione, anche se non strettamente religiosa, è stata influenzata in maniera determinante dalla religione cattolica. Io sono nato a Roma, la città del Papa e del Vaticano, dove potere e religione hanno storicamente convissuto; crescendo, sono diventato cosciente e critico nei confronti dei dogmi e dei tabù dettati dal sistema, sia religioso che politico. Mio nonno e mio zio lavorarono come artisti nel periodo storico tra le due guerre mondiali, in cui l’Italia era guidata dal regime fascista. Attraverso le loro opere e la loro esperienza, ho capito quanto possa essere deprimente per un artista mettersi a servizio di un regime o di un sistema di potere, senza avere la possibilità di criticarlo e di rimanere libero nella propria creatività. Purtroppo l’idea di essere liberi dalle strutture di potere politiche e religiose è un’illusione creata a partire dal secondo dopoguerra, nella società occidentale, dalla propaganda americana. Non esiste una libertà mentale totale, siamo comunque influenzati dal nostro background geografico/culturale. Penso che la libertà di pensiero sia una vetta che si conquista soltanto attraverso una presa di coscienza dei propri limiti.
SN: Dai l’impressione di essere estremamente a tuo agio passando da una forma di espressione a un’altra: disegni, realizzi sculture e installazioni, fotografie e video. Ma in un certo senso io sento che tutto questo deriva da una base che è il disegno. Ad esempio le tue sculture in gomma sembrano disegni nello spazio; le tue foto in bianco e nero condividono un’estetica simile e un senso di tridimensionalità. Puoi chiarire questo aspetto di relazione nomadica che hai trasformato in forma?
PC: A volte ho definito ciò che realizzo un “Minimalismo Barocco”. Penso che questa contraddizione di termini possa in qualche modo descrivere la mia poetica: cerco di raccogliere nel mio lavoro molteplici aspetti (penso che un’opera d’arte sia qualcosa di molto indipendente che segue una strada autonoma e che non debba avere un’interpretazione assoluta) e questo atteggiamento riguarda anche le diverse tecniche che uso. La mia formazione accademica mi ha garantito un supporto solido nel disegno: ho sempre visto la definizione di un’idea come un disegno nello spazio, ho cercato un concetto di anti-monumentalità, ho voluto togliere la pesantezza retorica che spesso accompagna la scultura, e in questo il disegno mi ha sempre aiutato molto.
SN: Vivi a New York da ormai qualche anno. Come definiresti il clima culturale di New York rispetto a quello europeo? Ti senti ancora un artista italiano, o pensi che questa definizione sia obsoleta e ti senti quindi un artista “globale” proprio perché vivi fuori dalla tua cultura e dal tuo paese?
PC: Penso che gli artisti non abbiano veramente un’unica patria, appartengono al mondo: l’identità di un artista è costituita dai suoi retaggi culturali e dall’impronta indelebile che essi lasciano; a volte questa impronta è solo una sfumatura nell’anima, altre volte è una ferita. Per me New York rappresenta un non-paese, è una città che non appartiene a una specifica nazione, è senza una precisa identità, è tutto e niente al tempo stesso, è il caos culturale che in qualche strano modo trova una sua misura, un suo senso concluso nell’isola di Manhattan. New York è così diversa da qualsiasi altra città, soprattutto europea, dove la storia è presente. Venendo da Roma sono cosciente di quanto la storia abbia peso e significato, ogni pietra a Roma è coperta dal sangue della storia, è una città che non si conclude in uno stile architettonico, in un’esperienza artistica, dove le cose si sono assorbite e trasformate in una metamorfosi continua della storia. Penso che i confini esistano ancora geograficamente e culturalmente e siamo solo all’inizio di un’epoca che si identifica troppo in fretta sotto la parola “globale”.
SN: In alcuni tuoi lavori sembri concettualizzare l’idea del vuoto dell’assenza, come se tu cercassi di costringere il fruitore a capire, intuire o immaginare quello che manca. Può essere questa una sorta di strategia per de-spiritualizzare l’arte stessa? Si tratta di una critica a quello che sta accadendo, ovvero l’iperproduzione dell’arte per le fiere, le gallerie e i musei? Stai facendo un tentativo di ricondurre l’attenzione su un’immaginazione individuale?
PC: Il ciclo di lavori “Monumenti della memoria” si è sviluppato tra il 2011/2012. Sentivo la necessità di descrivere uno stato d’animo nella sua espressione più radicale; la sensazione che mi ha accompagnato in questi ultimi anni era quella di un linguaggio contemporaneo che sta perdendo di senso e di incisività. L’inquinamento visivo al quale mi sento sottoposto quotidianamente sta invadendo il territorio sacro dell’arte, creando una Babele di false informazioni che sta distruggendo pian piano la nostra immaginazione. Ciò lascia pochissimo spazio alla fantasia e al potere dei sogni e delle visioni, che sono generate dall’introspezione, dall’osservare il proprio io. Mi sono chiesto quale potesse essere una risposta a questo stato di cose, a questo caos di immagini e informazioni che martellano incessantemente la mente dell’individuo. Ho cercato di creare nei miei dipinti un luogo che fosse libero, uno spazio democratico dove la fantasia e l’immaginazione legata alle esperienze e ai sentimenti personali possa trovare l’infinito. Un concetto analogo alle tele è nelle mie sculture, dove viene sottolineata l’assenza di quello che è sempre stato l’approccio alla scultura: la sua presenza nello spazio come oggetto tridimensionale a cui si deve, per scoprirlo, girare intorno. Le mie sculture sono dei parallelepipedi di vetro, delle scatole trasparenti chiuse sui sei lati. Sono come delle teche da museo che contenevano qualcosa ma il cui contenuto è scomparso, rimane il vuoto. Non c’è dunque all’interno nessuna informazione a cui possiamo fare riferimento, nulla che possa suggerire un’immagine, nulla a cui aggrapparci. È la nostra fantasia che deve ed è costretta a evocare l’opera. La mia ambizione è quella di far scomparire, come un’illusionista, il possesso fisico dell’arte, e riportare l’arte alla sua essenza spirituale, all’elevazione del pensiero come opera.