“Paolo Giulio Adolfo Scheggi Merlini degli Justomini, piacere”.
Così lo conobbi agli inizi degli anni Sessanta a Milano e mi impressionò subito. Mi chiamavano Get, e lui era un uomo vero, serio, anche se esile, compunto con abito scuro completo di gilet, camicia bianca, cravatta e soprattutto occhiali, orgoglioso che fossero uguali a quelli di Kandinsky, e parlava forbito. Volle che andassi subito a vedere i suoi lavori: li teneva in un angusto mezzanino sito però nella via più elegante della Milano di ora, in corso Venezia. Erano tele monocrome sovrapposte su tre strati con grandi forme curve intagliate; ricordo però una piccola tela nera opaca con un foro ovaloide bordato, non ricordo se bianco o argento o oro, e sopra una superficie discoidale di smalto lucido nero. C’erano poi alcune cose in metallo, ma non avevano questa componente di innovazione. Mi disse che stava preparando un progetto di integrazione con l’architettura ristrutturando l’atelier sartoriale di sua zia che si trovava nel grande appartamento sottostante. Non avevo mai visto questi lavori, ma in quegli anni era così perché nascevano sempre tante cose nuove. Ricordo che nello stesso tempo vidi nello studio di Lucio Fontana due ragazzi che gli mostravano dei pezzetti di polistirolo espanso che si muovevano e una teca circolare con dentro polvere di ferro magnetizzata; pensai fossero degli operai che gli facevano vedere una campionatura, solo più tardi seppi che erano Gianni Colombo e Davide Boriani.
Lavoravo come disegnatore grafico e progettavo piccoli apparecchi di comando per una fabbrica bresciana di materiale elettrico che aveva gli uffici in viale Tunisia, dove in un minuscolo spazio andavo a dormire quando mi recavo a Milano per allestire i loro stand alla Fiera o per stampare depliant, ecc. Ero abbastanza lontano dal mondo dell’arte e l’arte che un po’ conoscevo era oltre cortina, al confine del mio Friuli, nella Jugoslavia d’allora tra Lubiana, dove avevo fatto la prima mostra (senza neppure sapere bene che cosa volesse dire mostra personale) e Zagabria, dove avevo incontrato i protagonisti delle “Nuove Tendenze”. Proprio da Zagabria avevo portato con me tre mie serigrafie stampate da Brano Horvat allo Studentski Rientri Centar. Il mondo allora non era fatto per i giovani, com’è oggi; anzi era esattamente l’opposto, eppure, nella nazione vicina, primo paese dell’est dove persino l’aria aveva un altro odore, non era così, c’era un piccolo posto per noi; così parlai con Paolo Scheggi: anche lui avrebbe potuto stampare qualcosa di suo e gli lasciai quegli esempi. Qualche tempo dopo mi rintracciò e mi disse che sua zia, Germana Marucelli, aveva visto quei disegni e aveva delle idee per fare dei tessuti e degli abiti. La conobbi: era una persona entusiasta, straordinaria. Davanti a me si dischiuse un mondo inimmaginabile.
Paolo aveva una fidanzata stupenda, Franca Dall’Acqua, focosa come i suoi capelli rossi, benestante, che lo aiutava in tutto e lo sosteneva. Diventammo amicissimi e le nostre conoscenze si fecero reciproche, da Umbro Apollonio ad Argan a Gillo Dorfles a Carlo Belloli, da Ungaretti a Montale, da Biki Crespi a Fernanda Pivano, solo per citarne alcuni.
Germano Celant, quando si fermava a Milano, dormiva da Franca e Paolo. Si instaurarono sodalizi e collaborazioni, era il tempo in cui nasceva tutto, non come ai nostri giorni in cui si parla solo del male, di scandali e di denaro. Allora c’erano solo progetti per tutto, per un futuro che stavamo costruendo teoricamente e praticamente. Il futuro si toccava, avevamo la consapevolezza di idearlo e il denaro non era un problema.
Paolo Scheggi era molto più incline alla teoria, aveva un linguaggio e una sua articolazione inusuale; le sue erano istanze filosofiche e sembrava che avesse ricevuto questo imprinting da un suo incontro con Jean-Paul Sartre. Persino Lucio Fontana è filosofo quando gli risponde nel 1962: “Il tuo scritto è molto intelligente, come logica; tra noi vi possono essere delle divergenze che ritengo a tuo favore, sei un uomo del tuo tempo. Vorrei solo aggiunge che le arti non sono che una delle manifestazioni dell’intelligenza, sono la ragione dell’‘essere uomo’ e non vi può essere evoluzione sociale senza un’evoluzione totale dell’uomo. Mi piacciono le tue inquietudini, le tue ricerche: i tuoi quadri così profondamente neri, rossi, bianchi parlano del tuo pensiero, della tua paura. Non posso che augurarti una carriera felice e ricordati di essere umile, molto umile perché siamo nulla”. Queste parole di Lucio Fontana a proposito di Paolo Scheggi non possono che farmi venire in mente chi, invece che con umiltà e intelligenza, ha agito con supponenza, megalomane visionarietà e scaltrezza per fare, tantissimi anni dopo, opere simili a quelle di Scheggi datandole però 1958, 1959, 1960.