Molteplici furono le modalità, le speranze, le esigenze che, verso la fine degli anni Sessanta, dettero origine a quel fenomeno che fu detto “Pittura analitica”, termine che, nella sua vaghezza, sottintendeva una comune volontà di rimettere in discussione i fondamenti dell’atto del dipingere e di salvaguardare il ruolo di questa pratica nel momento in cui da più voci ne veniva preconizzata l’estinzione. Fu la messa a fuoco, secondo diverse prospettive e punti di vista, di una pittura in grado di pensare se stessa nel momento stesso in cui prendeva corpo, quasi fosse animata da riflessioni impresse nei gesti, da meditazioni in punta di pennello.
Quest’ansia di ricerca non ferveva solo in Italia, ovviamente. In Francia era attivo il quartetto composto da Daniel Buren, Olivier Mosset, Michel Parmentier e Niele Toroni, i quali riflettevano sulla pittura praticandola nel momento stesso in cui provocatoriamente la rinnegavano, e inoltre il gruppo Support/Surface. Ma anche nel resto dell’Europa, soprattutto in Inghilterra, Germania e Olanda, la pittura, la “nuova pittura”, rivisitava se stessa. Negli USA artisti del calibro di Robert Mangold, Brice Marden e Robert Ryman fin dagli anni Sessanta si adoperano a rielaborare i fondamenti di quest’arte, che anche laggiù, abbandonando le postazioni sistematiche, tende a inoltrarsi sempre più in una direzione decisamente analitica.
Ritornando alla situazione italiana, il cui principale termine di riferimento critico era impersonato da Filiberto Menna, c’è da dire che gli approcci a questa metodologia di ripensamento e di verifica furono molteplici e mutevoli; e se i suoi presupposti in alcuni esponenti si sono mantenuti integri fino a oggi, mentre in altri si sono inevitabilmente diluiti o alterati, nel gran pelago degli anni Settanta si può dire che tutti viaggiarono sintonizzati su una stessa lunghezza d’onda, sia pure seguendo rotte diverse e più o meno accidentate.
Questi artisti si trovarono, all’apice della loro energia creativa, in una spaccatura tra le sponde del concettualismo, al quale erano legati da un’intellettuale affinità elettiva, e di quel tipo di pittura che si trovava a rimorchio della Pop Art, alla quale erano accomunati da un semplice dato di fatto, e cioè dall’utilizzo degli stessi materiali.
Procedure concettualiste e modi di dipingere impigliati nella rete del feticcio e della merce erano avversari da tenere a bada con criteri opposti: i primi, ispiratori-oppositori, assecondati nei metodi ma ferocemente avversati nelle conclusioni; i secondi, colleghi-reietti, tollerati per condivisione di sponda ma lasciati sprezzantemente andare per scorciatoie e accomodamenti ritenuti impercorribili.
Per questo venne anche coniato l’appellativo di “Pittura-pittura”, tanto per ribadirne il carattere e sottolinearne una sorta d’essenza allo stato puro. Ma, depurata da qualsiasi velleità di rappresentazione, essa richiedeva anche di essere distanziata dai dettami del costruttivismo e dell’astrattismo storico, e dalle loro più recenti declinazioni in senso minimalista, concreto o luministico-spaziale. Artisti come Francesco Lo Savio e Giuseppe Uncini, Piero Manzoni ed Enrico Castellani, Mario Nigro e Piero Dorazio, Agostino Bonalumi e Antonio Calderara avevano, pochi anni prima, raffinato l’alfabeto di base e sedimentato un lessico che necessitava, al momento, di essere decostruito e rifondato su nuove basi. E un analogo discorso può farsi anche riguardo all’accoglimento e alla ricezione delle esperienze degli artisti americani, con l’occhio rivolto in particolare alle opere di Barnett Newman, Mark Rothko e Ad Reinhardt.
L’esigenza di distanziarsi dall’astrattismo classico è illustrata alla perfezione da Carmengloria Morales: l’eredità di questo, diceva nel 1973, doveva consistere “soprattutto nella consapevolezza sintattica del proprio operare, giacché i suoi principali segni sono per noi privi di significato operante”. Nozioni come spazio-luce o spazio-colore, se sanzionavano un progresso della sensibilità e della ricerca artistica, in quel particolare momento non erano che irrigiditi teoremi, la cui accettazione finiva inevitabilmente per denotare “una inadeguata coscienza della crisi dell’arte”. Si tratta allora di estendere questa crisi, di esasperarla, avendo coscienza della potenzialità creativa ma anche del vuoto, ed ecco allora spiegata la predilezione della Morales per la struttura del dittico, per la forma ossimorica della “simmetria asimmetrica”: una tela in cui il colore verifica se stesso nei suoi impasti e frizioni, ritmata di segni cromatici larghi che si incalzano, che si sovrappongono in una schermaglia di colpi di pennellessa, e, accanto, una tela lasciata grezza, a rimarcare la perenne oscillazione tra atto e potenzialità, tra realizzazione e aspettazione, tra immanenza e memoria.
Fluidità e precisione, sospensione tra esattezza di procedimenti e ritmo elegiaco degli effetti visivi, equilibrio tra tensione intellettuale e senso di abbandono cosmico sono i connotati stilistici che caratterizzano il lavoro di Claudio Olivieri, uno dei rappresentanti più fermi e lungimiranti di questa temperie intellettuale volta alla ridefinizione, alla completa rifondazione, anzi, della pittura. Il suo lavoro si è sviluppato nel corso degli anni secondo dinamiche intime di singolare coerenza, raggiungendo e mantenendo incorrotti esiti di tensione spaziale e di oscura leggerezza.
Anche Pino Pinelli è rimasto detentore di una sua inconfondibile maniera. La sua pittura si è come naturalmente e tempestivamente svincolata dal supporto, ha acquistato una grana di madrepora, una morbidezza di muschio, pulsando in concrezioni esatte e ritmate: lave di colori primari raffreddate nel bel mezzo delle loro eruzioni emotive, torniture di paste, disciplinate granulosità, che rivelano, per usare le sue parole, “quasi uno stato ansioso della superficie”.
Marco Gastini ha percorso lo spettro della pittura sul filo del non esserci o dell’esserci troppo, pittura fatta di niente e pittura potenzialmente fatta di tutto, dal graffio su una lastra trasparente all’inglobamento di frutti secchi, scaglie di pietra, ferri, orchestrati segnicamente e cromaticamente come se fossero concrezioni di un telaio o spremitura di colore da un tubetto. Secondo Gastini, la pittura, questo “senso sottile, intricato, anonimo”, è sì concentrazione intellettuale, ma è anche un fatto fisico, “una fisicità che costringe lo spazio a rivelarsi”.
Un percorso fatto di riflessione e di inquietudine, di decostruzione e di ricostruzione, di fermezza nella teoria e di voglia di sperimentare nella pratica, è quello di Claudio Verna. Alle riflessioni sulla sintassi pittorica e sugli strumenti linguistici in dotazione all’artista, sui confini del quadro e sui rapporti tela-cornice e supporto-colore, perseguite fin dagli anni Sessanta, si sono succeduti abbandoni più decisi alla libertà del gesto e alla creatività della dimensione sensoriale, in una ricercata variazione, quasi per assaporarlo con curiosità sempre rinnovata, del “punto d’incontro di tutte le contraddizioni, sintesi imprevista e imprevedibile, di teoria e di pratica”.
“Devo scegliere un’ideazione di partenza, che sia la più elementare e disponibile”: più articolato sulla struttura segnica, concentrato sulle cesure, gli intervalli, gli stacchi, Giorgio Griffa sfiora quasi aspetti di disciplina zen nelle sue misurate ripetizioni di tratti di pennello, di strisce e losanghe che si arenano o sbavano sull’aridità di una tela non preparata e non tesa, già ansiose di torcersi in ganci e di arricciolarsi in occhielli. In lui le stesse premesse analitiche vengono espletate per poterle poi svalutare e apparentemente rinnegare. “Io non indago sulla pittura… sono un semplice esecutore” sarà la sua conclusione.
Sui procedimenti operativi si è concentrato Gianfranco Zappettini, uno dei più intraprendenti e attivi nel sostenere la continuità e nel ribadire, oggi, l’attualità della Pittura analitica. I suoi segni di grafite ripetuti e anonimi su carta trasparente, o le scarne velature su superfici sabbiate investono l’indagine dei rapporti che intercorrono tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Enzo Cacciola si misura invece, domandole e disciplinandole, con superfici più decisamente materiche e di ascendenza informale, come il cemento, mentre di Paolo Cotani sono rimarchevoli le bende pre-colorate, avvolte e intrecciate attorno al telaio. In questa pratica di avvolgimento di strisce di tela si è mosso pure Enrico Garavaldi, mentre Salvatore Emblema riduce il quadro alla sua dimensione di filato grezzo, la cui trama è ancor più messa in evidenza dai rari sfregamenti di colore. Marcello Camorani insiste in questo sfalsamento materico intervenendo con cuciture a rammendare l’unità di un supporto composto da differenti tramature di tessuto. C’è poi Vincenzo Cecchini che, applicando sulla tela vari strati di cellophane, raggiunge sottilissimi effetti di spaesamento della percezione.
Se Elio Marchegiani dirotta l’attenzione su esili strisce o “grammature” di colore deposte su supporti ruvidamente intonacati o addirittura su scabre lastre di lavagna, Riccardo Guarneri predilige superfici magre e dilavate che assurgono a pure trasparenze luminose, percorse poi con strisciate leggere di grafite e di colore, una pallida scansione destinata a essere riscattata e ricostruita dalla percettività del fruitore.
In Carlo Battaglia, che fu uno dei più aggiornati e attenti fra questi rifondatori, l’equilibrio instabile tra visionarietà e distanza intellettuale che sussisteva negli anni Sessanta e Settanta, come risucchiato in un incanto di distese marine, si altera in direzione di un deciso sconfinamento nella referenzialità. Un simile discorso può farsi per Luciano Bartolini, il quale, se con i suoi reticoli di kleenex degli anni Settanta propone un intrigante ripensamento materico della pittura in chiave, diremmo, manzoniana, negli anni Ottanta complica le sue superfici con dorature, simboli e arabeschi che dirottano il suo lavoro verso una sensualità quasi bizantineggiante.
Una “pittura” fatta con fili di cotone e tela imbastita, spoglia e incisiva, era la proposta, invece, di Paolo Masi, del quale dovremmo ricordarci ogniqualvolta vengano menzionati gli incensati campioni di ago e filo venuti in auge sulla scena dell’arte più di vent’anni dopo.
Analitico in senso più circostanziato potrebbe essere definito Antonio Passa, il cui procedimento si fondava su calcoli preventivamente stabiliti, a partire dallo spessore del telaio, in modo da disporre le bande di colore sulla base di multipli e di addizioni.
Le linee tracciate da Gottardo Ortelli, dal canto loro, si propongono come risonanze visive e tracce mentali, mentre quelle di Vittorio Matino intrigano lo sguardo dello spettatore in uno sfrigolio energetico di piani e di toni.
In questa rapida rassegna sono stati probabilmente dimenticati altri nomi degni di figurarvi, essendoci qui limitati, da un lato, a quelli entrati più dichiaratamente a far parte dei registri critici e delle cronache, e risolti, dall’altro, a lasciar fuori coloro per i quali l’analiticità della ricerca, ammesso che esista un sicuro criterio per valutarla, abbia costituito un aspetto marginale o tangenziale al corpo del proprio lavoro.
Ma non vorremmo dimenticare un artista come Rodolfo Aricò, la cui opera, se deborda in altri ambiti e si ricollega con ricerche più decisamente spaziali, nella sua complessità e vastità investe in pieno le problematiche e incarna le contraddizioni, i dubbi, le lacerazioni che hanno agitato la calma apparente di questa particolare Weltanschauung. Aricò sembra far tracimare la pittura oltre se stessa, complicarla di estrusioni, invischiarla in una fuoriuscita di forme, in un moltiplicarsi di volumi. La sua opera può essere inserita nell’intercapedine che intercorre tra le tele di Olivieri e i cementi di Uncini, tra i dittici della Morales e i moduli di Castellani. Forse può essere vista in lui una delle figure-cardine di quel crogiuolo di esperienze e di illusioni che l’emergere di una concezione più cinica e scanzonata dell’arte avrebbe destituito d’importanza e che è davvero ora di riscoprire e di rivalutare.