Perlustrare le terre di confine significa spesso addentrasi in zone impervie, uscire dal sentiero tracciato. Comunque vada, difficilmente si approderà a una landa desertica: la sedimentazione di sottostrati culturali eterogenei diviene terreno fertile per il germogliare di nuovi fermenti. Così Trento, con il Premio Internazionale della Performance promosso dalla Galleria Civica, per il terzo anno consecutivo si fa osservatorio privilegiato della vasta area di confine tra perfomatività, arti visive, teatro e spectacle vivant. Ma che cosa ha contraddistinto questa edizione rispetto alle precedenti? In due casi si è cercato di minare la base della performance, almeno nella sua formulazione più elementare: la compresenza dell’azione artistica e del pubblico per un lasso di tempo qualsiasi.
Sia gli 0100101110101101.ORG (Eva e Franco Mattes) che Ei Arakawa presentano performance nella performance, ma al di là di questa struttura in comune, le proposte si sviluppano in direzioni diametralmente opposte.
I Mattes non si sono neppure presentati alla Centrale di Fies a Dro, ma in collegamento da New York ci appaiono sullo schermo sotto le sembianze degli avatar con i quali normalmente agiscono all’interno di Second Life. Il loro intervento a Dro è un’azione mediata in tempo reale, in cui ri-eseguono tre storiche performance degli anni Settanta (Stamping In The Studio di Bruce Nauman, 7.000 Oaks di Joseph Beuys e The Singing Sculpture di Gilbert & George) nel mondo parallelo, ovattato e asettico di Second Life.
I Mattes non sono con noi in carne e ossa, ma contrariamente all’usanza di costruire il proprio avatar dando libero sfogo a fantasie personali e desideri inconfessati, si sono riprodotti a propria immagine e somiglianza. Il piano del reale e il piano del fittizio si mescolano senza soluzione di continuità. Le tre performance digitali accadono contemporaneamente davanti ai nostri occhi e dovunque: qualsiasi residente di Second Life, connettendosi da qualsiasi angolo della Terra, potrebbe assistere alla scena dall’interno. Inoltre, come non succede mai nelle performance, tutto è rigorosamente sotto controllo. La performance è azionata davanti a noi, ma i movimenti, gli spazi e gli oggetti che ne fanno parte sono già stati disegnati e codificati. Tutto è mediato, pre-impostato, inumano, nulla è lasciato al caso e nulla avviene spontaneamente. L’errore non esiste perché molto semplicemente non può esistere, a meno che non sia la connessione o il sistema a incepparsi. È dunque la realtà virtuale la frontiera che la performance sta attraversando? Forse no, o forse non solo. Certo gli 01.org sono sofisticati cyber-manipolatori e in altri contesti i loro interventi artistici sono stati senz’altro più interessanti rispetto alle performance sintetiche.
Nel caso di Arakawa, la performance nella performance elimina una componente tradizionale di questo linguaggio: la presenza del pubblico. Così, se nella prima edizione del Premio Michael Fliri, nei panni di orso polare, otteneva da un blocco di ghiaccio granite colorate per i presenti, questa volta Arakawa, in T-shirt e pantaloncini, offre tre mojitos solo agli studenti che prenderanno parte alla sua performance privata. Spezzando il sodalizio con il pubblico, Arakawa ci chiede solo il nome da dare alla performance. Qualcuno propone “Ghost”, dopodiché si innesta la dinamica di esclusione e l’artista si dilegua con il suo gruppo promettendo di ritornare a fine serata con una rivista dal nome Ghost. La performance pubblica sfocia nell’oggetto, nel documento, mentre nella dimensione privata i performer si decorano il viso con i testi che poi serviranno per la rivista, ballano, proiettano il documentario di Jean Rouch Les maîtres fous (che mostra i riti di possessione di una comunità religiosa del Ghana), costruiscono la scultura più alta possibile, improvvisando con oggetti di recupero, e scattano foto; ma tutti ne sono all’oscuro, giurati compresi.
L’atto provocatorio di Arakawa fa risaltare per negazione una delle peculiarità della performance: lo scambio di energie tra performer e pubblico attraverso il corpo. Per questo, forse, si sono aggiudicate il primo premio le polacche Sedzia Glówny con Part LXVIII, una performance ricca di elementi il cui risultato finale sembra tuttavia un po’ confuso. Sedute sugli stipiti di due finestre, i pantaloni abbassati, la camicia aperta, le mani protese, una moneta sul palmo, le due donne sussurrano, balbettano qualcosa di incomprensibile, in parte coperto da un suono continuo di sottofondo. La performance è un crescendo che termina quando le gambe a penzoloni non reggono più, lo sforzo muscolare fa contrarre i corpi che poco dopo cedono e cadono giù dagli stipiti.
L’equilibrio tra corpi, tra i pieni e i vuoti che creano nel loro incedere, diviene cosmogonico nel Sistema solare di Matteo Rubbi. È Mercurio a dare il là e a scandire il tempo a suo piacimento, gli altri corpi seguono a ruota, con ritmo che degrada nelle orbite più esterne. È una danza intorpidita fuori dal tempo, semi-scomposta e semi-coordinata, di corpi che si studiano e si posizionano vicendevolmente in tutta la loro umanità.
Il corpo diventa il luogo dell’azione per l’israeliano Meir Tati (terzo classificato). Se nelle esperienze più radicali gli artisti sottoponevano il proprio corpo a forme di violenza, in Doom 2 l’artista diventa carnefice. Meir trapana una testa gialla indossata da un uomo-vegetale incapace di reagire. La trivellazione cerebrale si alterna a momenti in cui le mani con forza estirpano i filamenti, le membrane, i tessuti che incontrano e li abbandonano per terra. Il supplizio dura fino a quando la testa è completamente svuotata, privata di ogni contenuto. Sullo sfondo, un video (forse superfluo) ripercorre una delle strade più famose di Tel Aviv.
Le tematiche politico-sociali sono invece affrontate con toni più faceti dagli artisti losangelini. Così, Scoli Acosta in Land Fall ricorre al mimo e al linguaggio simbolico. Attraverso un paesaggio di cartone e una scenografia volutamente semplice e rudimentale, come un novello aedo ci racconta le vicende di una cittadina americana su cui si abbatte un tornado. E in Mountain People, i My Barbarian sono semplicemente esilaranti. Leggeri, fantasiosi, divertenti e sofisticati, creano favole contemporanee al ritmo pop-rock. Mescolano sapientemente voce, teatro e danza, dando forma a sequenze di musical in cui si passa da Shakespeare alla Padania, a rappresentazioni stereotipiche dell’omosessualità e della società multirazziale.
Una buona dose di ironia contraddistingue anche il lavoro di Michele Bazzana, secondo classificato. L’artista, prima di essere un performer, è un homo faber che conosce l’arte del non prendersi troppo sul serio. Ha costruito un curioso marchingegno, un’avveniristica macchina inutile con motore a scoppio, su tre ruote, senza sterzo. La missione impossibile è sradicare la colonna alla quale la macchina è legata tramite una catena. Alla guida di questa bizzarra monoposto, in una sfrenata corsa sul posto, lo stesso Bazzana con tanto di casco protettivo. Finché c’è benzina c’è speranza, e la macchina accelera, sgomma, si dimena, fa un baccano infernale. Al posto dei fari pulsa la luce di un lampeggiante che frammenta lo spazio circostante. Tanto rumore per nulla. Finisce la benzina, e la macchina si spegne, come da copione. Ma nello stesso istante un tonfo imprevisto chiude la performance: è caduta la molla tendicatena. L’elemento fuori controllo rende la performance perfetta. L’imprévu, l’unicità dell’azione nel momento in cui viene eseguita, la sua natura effimera restituiscono alla performance il suo tratto distintivo e a noi il piacere di starla a guardare.