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3 Luglio 2017, 4:12 pm CET

Maurizio Cattelan di Helena Kontova

di Helena Kontova 3 Luglio 2017
Carta da gioco contenuta nell’invito della mostra di Maurizio Cattelan all’MMK Museum für Moderne Kunst di Francoforte (2007). Courtesy dell’artista.
Carta da gioco contenuta nell’invito della mostra di Maurizio Cattelan all’MMK Museum für Moderne Kunst di Francoforte (2007). Courtesy dell’artista.
Carta da gioco contenuta nell’invito della mostra di Maurizio Cattelan all’MMK Museum für Moderne Kunst di Francoforte (2007). Courtesy dell’Artista.

Helena Kontova: Hai trascorso quasi un anno in Germania, a Berlino. Come hai vissuto questa esperienza, il tuo rapporto con gli artisti, con la cultura del territorio?

Maurizio Cattelan: Innanzitutto non l’ho vissuta da solo. Ali Subotnick, Massimiliano Gioni e io, a differenza di molti curatori, per preparare la Biennale di Berlino abbiamo subito allontanato la tentazione di correre da una parte all’altra del mondo alla ricerca di nomi nuovi e facce sconosciute. Ci siamo invece concentrati sull’idea di impiantare delle radici solide e di stabilire delle connessioni con la città e il territorio. Per esempio abbiamo aperto una galleria un anno prima della Biennale e abbiamo fatto le nostre ricerche per lo più in Germania. La maggior parte dei chilometri li abbiamo addirittura percorsi in treno. Questo per dire che qualunque cosa può diventare interessante, se la guardi abbastanza a lungo. Spesso anche il più piccolo e insignificante dei dettagli nasconde l’universo intero.

HK: Da New York a Berlino, cioè dalla fucina culturale della “Grande America” alle debolezze della Vecchia Europa. Come hai vissuto il salto e le differenze?

MC: Mi sembra che la “Grande America”, come dici tu, mai come in questo periodo sia attraversata dalla paura strisciante della crisi e del fallimento. Il sogno è diventato ufficialmente un incubo. Fantasmi del passato che sembravano dimenticati, come la crisi economica, compaiono ogni notte con maggiore ferocia. La Vecchia Europa mi sembra invece percorsa da un nuovo conflitto, che vede la consapevolezza dei propri limiti a ovest combattere contro l’euforia di tutti i nuovi paesi dell’est, che hanno ormai definitivamente tirato fuori la testa dalla sabbia. L’arte non è mai indifferente a cambiamenti così radicali. Del resto, si dice che gli scontri e le battaglie non indicano mai chi vince, ma soltanto a chi è concesso di rimanere.

HK: Ti sei presentato alle mostre a Francoforte (Portikus e MMK Museum für Moderne Kunst) con una serie di sei lavori nuovi. È uno statement importante dopo quasi due anni senza produrre un lavoro nuovo. Perché questa lunga pausa? La Germania, la sua storia, i suoi ricordi, ti hanno stimolato particolarmente?

MC: In questi due anni ho dovuto combattere contro le immagini. Fare il curatore e allo stesso tempo presentare dei lavori nuovi è stato come nuotare a dorso e pretendere di guardare avanti. Alla fine però ho deciso di fare buon viso a cattivo gioco e di vivere la cosa come un esilio forzato, una sfida all’inevitabile necessità di reagire, quasi un esercizio zen. In altri tempi, dalla Russia si diceva che Berlino era come le palle dell’ovest: se si voleva far gridare l’occidente bastava colpire Berlino. Oggi, per fortuna, nessuno vuole colpirla né tanto meno farla urlare, ma le grida del suo passato rimbombano in ogni edificio e perfino negli angoli delle strade. Forse i miei nuovi lavori risuonano di quelle voci, ma ho soltanto reagito a una necessità. Sono un vettore, non sono una forza.

Senza Titolo (2007). Veduta dell’installazione all’MMK Museum für Moderne Kunst, Francoforte. Fotografia di Axel Schneider. Courtesy dell’artista.
Senza Titolo (2007). Veduta dell’installazione all’MMK Museum für Moderne Kunst, Francoforte. Fotografia di Axel Schneider. Courtesy dell’artista.

HK: In Germania hai anche curato una grande mostra internazionale, la Biennale di Berlino. C’è indubbiamente un’intesa ormai tra la Grande Germania, le grandi strutture d’arte contemporanea tedesche e Maurizio Cattelan? L’atmosfera e il ricordo del Terzo Reich hanno stimolato particolarmente la sensibilità e le memorie del ragazzo di Padova, quale tu eri?

MC: L’unica connessione che riesco a pensare tra il Terzo Reich e Padova è la parola “Rauss”, che da piccolo vedevo sempre scritta sui muri senza mai capire cosa volesse dire. A parte gli scherzi, non c’è dubbio che la Germania abbia saputo sviluppare negli anni una rete così capillare di musei e istituzioni che quasi a ogni angolo di strada c’è una galleria, uno spazio per gli artisti o qualcuno che cerca di mostrare le sue opere. Non credo di aver visto da nessun’altra parte del mondo un’urgenza simile, c’è quasi una sovraesposizione di arte, una lente d’ingrandimento costantemente puntata sul mondo, sempre pronta a svelarne contraddizioni e ambiguità. Oggi la Germania è come un moltiplicatore dei dubbi e delle angosce della natura umana, ma mi ci sento a mio agio, anche se dopo poche ore vorrei scappare via terrorizzato. Forse la paura è soltanto la tassa che la coscienza deve pagare alle colpe.

HK: Non credi che i grandi musei internazionali, soprattutto in USA, ma in particolare gli sponsor, spesso pesanti e poco illuminati, possano interferire nel lavoro di committenza e diventare dei censori?

MC: Gli artisti non sono mai stati completamente liberi, perfino i grandi del passato dovevano sottostare ai dettami di questo o di quel signore, ubbidire ai suoi capricci per tirare a campare. Fortunatamente nella Storia sono sempre esistiti anche personaggi un po’ laterali, visionari e coraggiosi, che si sono fidati degli artisti anche quando questi mentivano. D’altra parte, siamo tutti dei millantatori, promettiamo un ponte anche dove non c’è un fiume.

HK: Hai lavorato in vari continenti e paesi molto diversi. Dove ritieni che il tuo lavoro sia maggiormente e meglio apprezzato? La tua matrice culturale italiana (ed europea infine) ti ha creato in qualche caso problemi di comprensione o di penetrazione?

MC: Penso sempre di avere problemi a essere compreso, ovunque vada, e ancora oggi mi sorprendo quando mi parlano di cose come successo e apprezzamento. È una posizione che ho sempre fatto fatica ad accettare, indipendentemente dalla mia cosiddetta matrice culturale o dal luogo in cui mi trovo.

HK: Cosa ci comunica la tua Frau C., la donna “epifania” e un po’ nordica, che dalle cime degli alberi allarga le braccia verso il mondo per abbracciare l’umanità e salvarla? Se La Nona Ora ci fa cadere nella polvere, ritieni che solo la donna santa, forse la mamma, possa risollevarci?

MC: Non so quanto Frau C. cerchi di salvare il genere umano o stia piuttosto cercando di farci capire quanto siamo disastrati. A me sembra come una rivelazione, un’apparizione religiosa. A dirla tutta, non ho ancora capito se stia salendo in cielo o scendendo lentamente al suolo come se l’avessimo abbattuta. È sicuramente un evento unico, come quei momenti in cui, come per miracolo, ti rendi improvvisamente conto di quanto sia assurdo ciò che hai sempre mangiato o quanto sia inutile quello che stai dicendo da anni.

Jolly Rotten Punk (2005- 2007). Performance alla Tate Modern di Londra. Courtesy dell’artista.
Jolly Rotten Punk (2005- 2007). Performance alla Tate Modern di Londra. Courtesy dell’artista.

HK: Se non vado errata, è la prima volta che nel tuo lavoro appare una donna, almeno in modo quasi trionfale. È dunque la donna la nostra speranza di salvezza? Anche Maurizio Cattelan sulla via di Damasco, folgorato dalla luce, questa volta femminile?

MC: La salvezza a volte arriva da dove meno te l’aspetti, può galleggiare in un lago a Münster o accogliere i visitatori di un museo mascherata da Georgia O’Keeffe. In realtà, le donne sono sempre state protagoniste del mio lavoro. Una delle ultime era una simpatica vecchina chiusa in un frigorifero, tra le carote e la maionese. Forse nessuna di queste opere era esattamente un trionfo, ma erano comunque apparizioni inaspettate e sconvolgenti. Dopotutto l’arte funziona solo se c’è qualcuno che ha voglia di farsi sorprendere.

HK: Le braccia che spuntano dalla parete in un apparente festoso saluto pubblico che ricorda il famigerato “Heil Hitler”: quali le analogie e le differenze? La tua è una critica, una parodia o un’adesione?

MC: Le immagini sono sempre un po’ una cosa e un po’ un’altra, e io ho sempre lavorato con la loro ambiguità, sottraendomi alla tentazione di raccontare una qualche verità assoluta. Per rispondere alla tua domanda, critica e parodia certamente. Il braccio teso, per esempio, per me è uno straordinario simbolo di potere, un’erezione in potenza e allo stesso tempo l’assoluta sospensione del giudizio. Nessuno è mai riuscito a capire davvero da dove venga il saluto romano e chi l’abbia inventato, ma, come vedi, il dubbio non è riuscito a scalfire la sua forza nel tempo. E alla fine, se devo scegliere tra due mali, scelgo sempre il peggiore.

HK: Se gli uomini perdono il corpo e ritrovano solo le mani per qualche nostalgico saluto, il cavallo perde la testa per ritrovare un corpo integro e scalpitante, quale perversa legge del contrappasso si nasconde dietro queste immagini così forti?

MC: La cosa veramente drammatica è constatare come quelle che tu chiami immagini forti per me sono forse uno dei pochi momenti in cui cerco di non nascondere niente. Tutti perdiamo la testa e, ancora peggio, ci facciamo sempre sfuggire quello a cui teniamo di più.

HK: Infine la torta, una semplice, appetibilissima torta: di quale ricorrenza si tratta? Oppure una semplice ciliegina sulle tragedie della vita?

MC: Non ho mai amato le ricorrenze. Forse l’arte dovrebbe essere il nostro pane quotidiano e non una torta per le occasioni speciali.                                    

Helena Kontova è Editor di Flash Art International.

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