Raffaele Gavarro: Qual è la tua formazione?
Pesce Khete: Nei miei trascorsi ci sono alcuni mesi all’università nella facoltà di Biologia, un anno e mezzo di storia dell’arte contemporanea, e un diploma triennale all’Istituto Europeo di Design in animazione multimediale (questo portato fino in fondo). Non ho dunque un percorso accademico alle spalle, anche se sinceramente non ne ho mai sentito la mancanza. In pittura, fotografia e musica mi posso definire felicemente autodidatta.
RG: Hai sempre utilizzato la pittura?
PK: Credo che i primi esperimenti più consapevoli risalgano al periodo immediatamente successivo alla scuola. Potrebbe suonare banale, ma non credo che durante gli anni della mia formazione ci sia stato qualcosa di più spontaneo del mio avvicinamento alla pittura. Ho sentito una grande fascinazione per i pittori del passato, per il colore e la sua consistenza. Studiavo l’impressionismo, e lavoravo spontaneamente e ingenuamente a piccole tele di stampo impressionista. Cézanne era la mia divinità.
RG: La tua pittura lavora su un doppio registro, da una parte quello della provvisorietà e della fragilità del supporto, cartaceo e frammentato, sul quale si stende invece un colore solido e fortemente espressivo.
PK: Hai ragione, questi aspetti che sottolinei sono sicuramente presenti, ma direi che sono ironicamente involontari. Naturalmente mi è impossibile isolare il ragionamento dalla pratica, la riflessione dalla manualità, tant’è che banalizzando posso dire che il momento della pratica (pittorica) pare precedermi. La scelta della carta come supporto ha nella praticità la sua origine: avevo bisogno di un materiale immediatamente reperibile e malleabile, che mi permettesse di costruire fisicamente ogni volta un formato differente con il procedere della figura o della forma. Ancora oggi non ho trovato dei mezzi più adatti di oil stick, carta e scotch. Al di là di questo riconosco come la dualità appartenga profondamente al mio modo di agire e di ragionare, e perciò il contrasto fragilità del supporto/solidità della pittura deve avermi inizialmente affascinato d’istinto.
RG: Cosa pensi della rappresentazione della realtà oggi? Credi che la pittura se ne sia allontanata? Oppure in che modo ha mantenuto una relazione?
PK: Non riesco a tracciare un profilo della situazione odierna, così sfaccettata e multiforme. La realtà resta e resterà comunque uno dei fondamenti della comunicazione. Non credo quindi che la pittura se ne sia allontanata, credo piuttosto che questa relazione continui con il solito andamento ondivago al quale la Storia ci ha abituati. Penso che il cambiamento sia nel taglio, nella prospettiva, così come siamo ormai portati a pensare che il valore di una fotografia sia nella sua scelta, e non nell’abilità che ha permesso di realizzarla. Nel mio caso ho pensato più volte che il rapporto con la scelta del soggetto della rappresentazione abbia un carattere puramente pretestuoso. Le immagini che utilizzo sono dei veicoli per dei valori plastici, pittorici, e soprattutto per un richiamo sostanziale alla verità. Un reflusso di realtà. Ogni singolo disegno o fotografia è un tassello di una visione complessiva più ampia, da bilanciare con misura e attenzione. È ragionando sull’insieme che riesco a combinare la rappresentazione più reale, all’astrazione più sintetica; è grazie alla consapevolezza della loro futura dislocazione in un ambiente, attraverso l’installazione degli elementi che la compongono, che mi sento libero di esasperarne o di trattenerne le parti.
RG: Nella tua ultima mostra da Massimo Carasi, “Sulle River”, racconti una specie di viaggio. Quanto peso ha nel tuo lavoro la narrazione?
PK: Tornando per un attimo a quanto dicevo a proposito della pratica pittorica, devo ammettere che negli ultimi anni ho messo sotto torchio ogni cedimento della narrazione. In passato il fatto stesso di aggiungere fogli di carta durante la realizzazione di un dipinto provocava una temporalità involontaria. In pittura un movimento da sinistra verso destra oltre a essere una distanza è anche una durata, per questo da sempre la pittura si è prestata alla rappresentazione di eventi, oltre che di presenze. Se a fianco di un oggetto c’è lo spazio per aggiungerne un altro, ecco che la relazione automaticamente genera un racconto, o come dici una narrazione. Il mio recente “ritorno” ai predefiniti quattro lati del formato “quadro” nasce anche come insoddisfazione verso questo tipo di temporalità. Singole immagini si sono sostituite alle passate coppie di elementi, le “icone” hanno preso il sopravvento sul racconto, che è rimasto, sfacciato e svuotato, solo nei dipinti dal sapore “storico”. È divertente che tu abbia avvertito gli echi di un viaggio nella mia ultima mostra, che non ha comunque un valore concettuale, ma è al contrario il frutto della combinazione di disegni e fotografie create nello stesso periodo.
RG: A proposito delle foto che ci sono nella mostra. Qual è secondo te oggi la relazione tra l’immagine fotografica e l’immagine nella pittura?
PK: In mostra ci sono grandi stampe fotografiche anche di tre metri per due. Quello che istintivamente cercavo di ottenere era una frattura della coerenza provocata da un’installazione di sola pittura. Non mi interessava creare un microcosmo di dipinti; non volevo che ci si perdesse con l’immaginazione solo nei paesaggi o nelle rappresentazioni pittoriche. Cercavo un insieme d’immagini, che si completassero e smentissero contemporaneamente, e ho scoperto che la fotografia su larga scala può servirmi in questo senso. Durante l’allestimento, ho dedicato gran parte delle mie attenzioni nel calibrare questa relazione, affinché restasse proficua e non penalizzante, cercando di schivare ogni facile lettura o accostamento tra i due linguaggi, così diversi ma indivisibili. Alla fotografia spettava poi di diritto l’arroganza dell’unico volto in primo piano, schiacciato dal peso di una posa ravvicinata. Avanti e indietro, fotografia e pittura si rimpallano autonomamente dettagli e visioni d’insieme. In fin dei conti, ho inteso entrambi i media come stampe, o manifesti: le immagini fotografiche come forzati ingrandimenti di piccoli negativi 35mm, i dipinti come ingrandimenti fedeli di precedenti formati ridotti. Di fatto, delle stampe fatte a mano. Una riproduzione.