Michele Robecchi: Avevi già familiarità con gli spazi della Fondazione Bevilacqua La Masa prima della tua mostra?
Peter Doig: Sì, avevo visto la mostra di Richard Hamilton nel 2007, e poi quattro anni fa quella di Enrico David. Ho sempre pensato che fosse un luogo speciale, e quando mi hanno offerto di fare una mostra non ci ho messo molto a capire che si trattava di un’occasione da non perdere, anche se per molti aspetti costituiva una sfida. L’architettura è molto forte, è difficile immaginare come sarà la mostra, è quasi come scegliere una cornice prima di fare un quadro. Ho dovuto portare le tele ancora arrotolate da Trinidad per poi stenderle sul posto e vedere se funzionavano. Alcune sono di grandi dimensioni, come ad esempio Spearfishing, il quadro che si trova nella stanza con il camino, o House in the Clouds. Non c’erano molte alternative.MR: La galleria con cui lavori, Michael Werner, ha spazi analogamente forti. Pensi che ti abbia aiutato a gestire questo tipo di situazione?
PD: Può darsi. Mi piacciono le architetture forti, le preferisco certamente al classico spazio d’arte contemporanea con le pareti bianche, i pavimenti in cemento e i quadri cinque metri uno dall’altro. È un modello espositivo valido, ha avuto un suo momento, ma per me le cose funzionano meglio quando ho la possibilità di creare un dialogo tra i lavori e delle vedute d’insieme particolari.
MR: So che fino all’ultimo momento hai avuto delle perplessità su Lion on the Road.
PD: Quando l’ho spedito a Venezia non ero sicuro al cento per cento che fosse finito. Mi sembrava vuoto. Si ispira a questo schizzo che ho fatto molto velocemente allo zoo di Port Spain, dove c’è un muro di cinta lungo quasi un isolato che ricorda quello di una prigione. Ho cercato di risolvere il problema creando un’apertura, ho provato con delle figure appoggiate al muro, ma non funzionava. Alla fine l’ho lasciato vuoto, ma non volevo togliere il leone per via del significato che ha a Trinidad. A Port Spain ci sono leoni dipinti ovunque per via del Leone di Giuda. È un simbolo potente, che si riferisce anche al Carnevale caraibico, il momento dell’anno in cui tutti si riversano in strada e iniziano le musiche e le danze. Dovrebbe rappresentare un momento liberatorio, però il fatto che il leone sia in uno zoo determina una specie di tensione tra l’idea di libertà e di prigionia.
MR: Questi schizzi li hai fatti dal vivo o hai fatto prima delle fotografie?
PD: Li ho fatti dal vivo. Li ho tenuti perché magari posso provare a usarli come base per un’acquaforte. I tratti sono semplici, è difficile fare un quadro con così poco, anche se le sensazioni e le informazioni che ricevi sono le stesse. Head of Rider per esempio è quasi uguale al disegno. L’ho dipinto su carta e poi l’ho stampato su tela. Se l’avessi rifatto a mano sarebbe stato troppo pesante, era l’unico modo per salvaguardarne l’immediatezza.
MR: Pensi che la tua percezione del colore sia cambiata da quando sei a Trinidad?
PD: Non credo. Ho sempre usato toni piuttosto chiari.
MR: Alex Katz ha fatto un commento interessante sul tuo lavoro. Ha detto, “Quello che ammiro di più in Doig e la sua capacità di presentare immagini in modo rilassato”.
PD: Secondo me se c’è uno che ha un modo rilassato di presentare immagini è lui. Sono andato a trovarlo anni fa quando ho fatto la mia prima mostra a New York. Fu molto gentile, mi fece vedere i quadri, i disegni, tutto. Ha un modo di lavorare vecchio stampo, fa studi a olio, bozzetti, deve essere sicuro di ogni dettaglio prima di iniziare a dipingere, e poi fa questi quadri enormi, a sentire lui in meno di sei ore. Mi disse di aver trovato la tecnica perfetta. Non voleva essere arrogante però mi sorprese, non mi era mai capitato di sentire un artista dire “È così che si fa”. Per lui funziona, non ci sono dubbi, ma il mio lavoro è completamente diverso. Cerco sempre di trovare il modo migliore per esprimermi mentre dipingo. È giusto che l’immagine sia forte ma ci deve essere anche una certa sottigliezza, credo sia importante lasciare spazio all’immaginazione e dare allo spettatore la possibilità di tornare e scoprire cose nuove.
MR: Che tipo di rapporto avevi con la pittura che si faceva a inizio anni Ottanta quando eri uno studente a Londra?
PD: Questa è un’ottima domanda perché quegli anni furono teatro di tantissimi cambiamenti. All’inizio la maggior parte degli insegnanti era interessata solo al Minimalismo o all’Astrattismo romantico alla Matisse. Le prime novità arrivarono nel 1981 in occasione della grande mostra di pittura tedesca alla Royal Academy, con Richter, Polke e Baselitz. Poi spuntarono Schnabel, Basquiat e Ross Bleckner. E naturalmente c’era sempre la vecchia guardia londinese, Ronald Kitaj, Francis Bacon, Lucian Freud. Anche Philip Guston era ammiratissimo. C’erano posizioni diverse a cui fare riferimento, e non è facile quando stai attraversando una fase della vita in cui cerchi di capire chi sei. Guardare altri artisti è normale agli inizi ma diventa difficile emanciparsi se lo si fa troppo da vicino.
MR: Questo sembra essere uno dei problemi fondamentali della pittura, il dover sempre fare i conti con la sua storia, che lo si voglia o no. Ricordi cosa ti ha fatto realizzare l’importanza di trovare la tua voce?
PD: Non ricordo ambizioni particolari in questo senso. L’unica cosa che mi interessava era dipingere e scambiare idee con altri studenti, persone con cui sono in contatto ancora oggi, tipo David Harrison o John Galliano. Ai tempi c’era un bel clima tra gli studenti di moda e di arte, ci si frequentava spesso. Loro venivano a vedere cosa facevamo noi e viceversa. Al Central St. Martin c’era una sala che si usava una volta ogni semestre per le sfilate di moda e per il resto dell’anno era vuota, potevamo fare quello che volevamo, chiunque poteva andare e mettere su una filata o una mostra, e veniva sempre tantissima gente, sia dall’università che da fuori, e non parlo di galleristi o altro ma di passanti, persone comuni, perché eravamo in centro, tra Charing Cross Road e Soho, ed era una situazione di cui non potevi non tenere conto quando lavoravi. In un certo senso è ancora così. Fai una mostra a Venezia e una parte di te pensa che comunque è Venezia, che ci sarà la Biennale, altre mostre, altri artisti. È bello, ti rende consapevole del fatto che esiste un pubblico.
MR: Che differenze hai riscontrato nel modo in cui si insegna arte a Londra e all’Accademia di Düsseldorf, dove lavori?
PD: Quando sono arrivato a Düsseldorf mi sono sentito ispirato e devo dire anche un po’ invidioso, perché la pittura che vedi ha un’aria sporca, non finita, quasi primordiale, mentre la pittura inglese spesso è troppo rifinita. Düsseldorf è una specie di via di mezzo tra uno studio e una scuola. C’è molta libertà, ma non c’è questo fenomeno per cui gli studenti ricevono sempre ospiti con cui devono discutere del proprio lavoro, c’è solo la classe e il professore. Secondo me è un modo intelligente di imparare. Nessuno dei miei studenti cerca di lavorare come me.
MR: Ti capita mai di dipingere per il gusto di farlo senza pensare al fatto che sia il tuo lavoro?
PD: Sì, anche se in maniera piuttosto indisciplinata. L’unica ragione che mi spinge a finire un quadro è una scadenza, altrimenti non faccio altro che saltare da un soggetto all’altro. Sono una persona curiosa. Mi distraggo facilmente.
MR: E i poster di Studiofilmclub, il progetto con Che Lovelace?
PD: Ai tempi il mio studio a Trinidad era adiacente a uno spazio d’arte dove organizzavamo un cineclub settimanale. Una volta ho fatto un poster per reclamizzare la proiezione di Orfeo Negro e da lì è nata l’idea, e ho iniziato a farne altri, ma in maniera molto veloce e spontanea. In quel periodo stavo lavorando anche a una mostra a Monaco, e quando i curatori sono venuti a trovarmi hanno visto i poster, mi hanno chiesto se volevo esporli. All’inizio ero contrario perché non li consideravo dei lavori veri e propri, ma poi mi sono reso conto che nell’insieme avevano un certo impatto, e allora ho accettato, a patto che fosse chiaro che si trattava di un progetto collegato all’idea del cinema.
MR: Mi ricordo infatti che alla Kunsthalle Zurich avevi anche costruito degli spazi per proiettare i film.
PD: Quella è una storia strana. Quando sono arrivato a Zurigo stavano smontando la mostra precedente (Keren Cytter, NdA), e c’erano come delle piccole sale in ogni stanza. Sembravano fatte apposta per noi, e allora li abbiamo tenuti. Ci siamo infiltrati nella mostra di un altro artista e l’abbiamo trasformata in qualcosa di completamente diverso.