Pianeta Cinzia è parte di un Dossier dedicato a Cinzia Ruggeri pubblicato in Flash Art no.356 Primavera 2022.
“Come va mondo? Ho notato che molti di voi stanno pregando per le persone ed è molto bello, ma io vorrei anche pregare… per le cose. Ci sono cose fantastiche, cose materiali, come appartamenti e orologi splendidi, auto, vestiti e non solo che potrebbero sparire e io non voglio. Quindi io pregherò per quello, amen”. La preghiera che il capo di gabinetto Jason Orlean (aka figlio della presidente Janie Orlean aka Jonah Hill) recita in Don’t look up di Adam McKay nel momento in cui si gioca il futuro della civiltà o l’estinzione di massa, è raggelante. Devo essere onesta, però: in linea del tutto teorica e non al cospetto della catastrofe che causerebbe la più grande perdita di vite umane nella storia, condivido la posizione di Orlean: c’è un mondo di cose bellissime, di oggetti inventati e prodotti dall’uomo, che sarebbe davvero triste vedere disperse o dimenticate per sempre. Non mi si fraintenda, so anche che ce ne sono troppe di cose, inutili o meglio utili a gonfiare i PIL delle economie nazionali e mantenere inalterati i (dis)equilibri del capitale, la cui continua, esasperata produzione – alienata da qualsivoglia necessità oggettiva della popolazione – non fa che diminuire, item dopo item, l’aspettativa di vita del pianeta.
Ci sarebbe voluta meno noncuranza nel rapporto che abbiamo stabilito con le merci a partire dal XX secolo. Le cose, dal fordismo in poi, sono state date per scontate: sarebbero sempre esistite, in abbondanza, sempre sostituibili, perpetuamente rinnovabili e in costante miglioramento. Per converso, la questione dello smaltimento delle cose “vecchie” è suonato soltanto come l’inacidito pensiero di qualche guastafeste troppo pessimista per godersi la vita. E invece, a un certo punto, abbiamo per forza dovuto cominciare a preoccuparci e la profonda inquietudine si è fatta strada non solo tra gli scienziati o nella politica – che dalla scienza dovrebbe farsi guidare per tradurre i principi in norme – ma anche nella filosofia, nell’arte e nella cultura di massa. Un buon risultato arrivato troppo tardi, una policy ormai probabilmente inattuabile. Anche l’arte contemporanea si è adattata all’agenda delle urgenze planetarie: la svolta ecologica dell’arte ha visto il propagarsi di pratiche che spaziano dalla coltura di muffe in museo alle passeggiate nel bosco vicino al museo, fino a mostre carbon free e plastic free, esposizioni temporaneamente sostenibili entro contesti architettonici e sociali che ancora non lo sono. Eppure, alla produzione di tanta natura e allo sforzo di sostenibilità spesso non viene affiancata un’esplicita riflessione sul già prodotto, il già consumato, l’usato, il danneggiato e quindi inutile, un pensiero archeologico di cura e conservazione, ripristino e risignificazione.
Cinzia Ruggeri non si può certo annoverare tra le artiste che appartengono all’ecological turn della moda e dell’arte contemporanee. Gli anni Ottanta e Novanta, durante i quali Cinzia disegnava, creava e soprattutto pensava, non erano il tempo di tale nomenclatura e, ad ogni modo, allora non si badava troppo alle conseguenze delle azioni, tantomeno delle azioni artistiche e creative. Il tratto che caratterizza la creatività di Ruggeri è di essere artificialmente umana, di percorrere una sorta di umanesimo sintetico (nel senso del rayon, più che della sintesi hegeliana) che, in qualche modo, la porta, a sorpresa, a inserirsi in un’economia circolare di cose e significati che si fonda su una semiotica del ri-uso, un’affascinate mercatino dell’usato della forma e della funzione. Rami di pesco di plastica sbocciano dal verde di un abito, una borsa è anche una bella sberla rossa, nastrini verdi sono i fili d’erba sintetici che si allungano dalle dita di un paio di guanti, lo Scottish Terrier diventa un motivo ornamentale e le tavole da pranzo vengono ingravidate. Il decoro è una seconda natura, l’abito il tramite per un legame profondo tra gli esseri umani e l’universo e l’antropomorfismo dell’oggetto ci muove a compassione.
L’estrema cura e considerazione per le cose che si riscontrano nelle operazioni creative di Ruggeri, possono costituire un modello esemplare per contrastare il consumismo carefree che ha caratterizzato il tardo capitalismo e che continua oggi, spinto da una forza inerziale incontrastabile. I meticci e gli ibridi di Ruggeri accentuano la “cosità” della cosa, ma anche l’umanità di coloro che gli oggetti li creano o li maneggiano. Sono un precipitato d’attenzione, una rifocalizzazione, un invito a soffermarsi sulla varietà del creato – non quello con la lettera maiuscola, ma quello un po’ dimesso delle cosettine di tutti i giorni, quelle che escono dalle fabbricone, dagli stabilimenti di Taiwan, Bangladesh e Turchia e vengono trasportate via mare in container da milioni di pezzi. Nel caso di Ruggeri si tratta, quasi sempre, di stupore: la stupita meraviglia di fronte alla fantasmagoria della merce, condannata da Adorno ma forse condivisa da Benjamin, antidoto all’anestetizzata nonchalance con cui ci relazioniamo al mondo.
Nei repertori oggettuali di Ruggeri il mondo riverbera, si riflette come in uno stagno intorbidito dal guizzo di un insetto sulla superficie. Si tratta di una copia per nulla sbiadita, ma piuttosto segnata da un disturbo d’onda, da un asincronismo che risintonizza realtà e artificio, confondendoli benignamente. La circolarità segnica delle opere dell’artista sottintende un movimento incessante, un andirivieni gioioso che si manifesta in un sottile umorismo, nel gusto per la battuta surrealista, ma non si risolve mai nel cinico sarcasmo, nella spocchia intellettuale.
Le mostre di Ruggeri sono insostenibili, popolate da assemblaggi che sembrano provenire da un immaginario deposito di oggetti/materie/merci. A Ruggeri si accorda il privilegio di addentrarsi nel fitto della selva del senso (e dei sensi), nel profondo della caverna delle forme, giocando con tutto l’artificiale possibile, con tutta la natura snaturata che vuole, con quell’energia umana residuale che cristallizza negli oggetti e che si sprigiona solo se accarezzata da un pensiero pieno di grazia.