Circa tre decadi sono trascorse dalla prematura morte di Pier Vittorio Tondelli. La sua produzione letteraria e giornalistica, così come quel postmodernismo nel cui solco è emersa, continuano a risuonare nel nostro presente con una carica tale da farci affermare che forse, quantomeno in Italia, siamo ancora nel pieno del “weekend postmoderno” raccontato da Tondelli. Mossi dal titolo della prossima Quadriennale d’Arte, “Altri tempi, altri miti”, che appunto è un’espressione utilizzata dallo scrittore nella sua raccolta di scritti sulla produzione culturale degli anni Ottanta, ci siamo interrogati sull’eredità di Tondelli, e di conseguenza su cosa significhi scrivere e “testimoniare” il proprio tempo, oggi, in Italia.
Senso di abbandono permanente
di Marco Mancassola
Parte della nostra fascinazione per gli anni Ottanta viene, ovviamente, dall’ambivalenza della loro frenesia pop. Quegli anni così spensierati, fosforescenti e sinistri. Videomusic e neoliberismo; capelli cotonati ed epidemia di HIV. Non è un caso che un tema ricorrente nella letteratura degli anni Ottanta fosse quello delle tappe del mondo edonistico (le feste, i club, i flirt, il sesso, le droghe) trasformate in una via crucis. L’edonismo che scolora in disperazione, in dipendenza o in crollo esistenziale. Una ricerca infernale di salvezza e di un luogo in cui sentirsi reali. Era un tema centrale nella letteratura americana dei postminimalisti; fu anche un punto di partenza, mescolato all’inquietudine movimentista del post-77 italiano, per gli Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli.
Alcuni anni dopo, in Camere separate, l’ultimo romanzo che Tondelli ebbe il tempo di scrivere e che uscì nel 1989, si intravede la parabola del decennio trascorso. Il romanzo ricalca ancora una sorta di via crucis, le stazioni di un vagare dolente. È il vagare di un protagonista che si trascina in una serie di metropoli occidentali, Milano, Londra, Washington, New York; si mescola ancora alla gente nei locali notturni, si guarda intorno stupefatto dalle sensazioni del mondo. Ma non c’è più inferno né salvezza; c’è solo la condanna ad un errare eterno per ritrovare, ovunque, gli echi di uno stesso irrimediabile addio. Il protagonista è vedovo. Ha perso il suo compagno. E in quella perdita privata riecheggia una perdita più vasta, perché il mondo è cambiato fatalmente e ovunque, nelle metropoli ormai globalizzate, come nella cittadina di provincia in cui il protagonista è nato, si ritrova la traccia di una stessa onnipresente malinconia. Un senso di abbandono come stato permanente. Si vorrebbe tornare a casa ma non c’è più casa.
Basterebbero certe pagine di Camere separate – quella, ad esempio, ancora molto attuale sullo squallore della ricerca di una casa a Londra; o quella profetica sugli immigrati poveri che sommergeranno l’Europa; o le pagine in cui si accenna a una radicale volontà di svanire, un desiderio di non-esserci e di sottrarsi al palcoscenico del mondo – per capire che Tondelli arrivò a essere un autore molto più maturo e stratificato di un esponente di una corrente di “scrittura giovanile” o di un puro osservatore della società postmoderna, come vorrebbero invece alcuni suoi detrattori.
Tondelli è uno di quegli autori al crocevia fra scritture che lasciano sempre qualche scettico fra i forzati dell’intellettualismo: autore facile oppure colto? Sentimentale o compiutamente letterario? Di sicuro, Camere separate non è un romanzo per tutti. Bisogna saper sentire per comprenderlo davvero; sposare il suo sguardo impressionistico e insieme antico, le sue sequenze di sensazioni, la commossa corporeità. La categoria di “corpo” non ha mai avuto molto rilievo nella letteratura italiana: una letteratura che sembra tutta testa, oppure superficie-pelle. Tondelli è un raro caso di autore italiano corporeo, e di autore che non ha avuto paura di mettere in pratica, nella sua voce narrativa, le intuizioni femministe sull’identità fra affettivo e politico. Non si tratta solo di trame narrative. In Tondelli, quell’identità vive nella costruzione di ogni pagina, nella fisicità della sua prosa.
È questa corporeità, insieme all’inquietudine nomade dei suoi personaggi, che parla ancora al lettore di oggi. Certo, fu soprattutto l’osservazione del postmoderno a dare a Tondelli l’aura di autore al passo con i tempi; la sua opera saggistica, la sua ricognizione dei fenomeni culturali intorno a lui, delle scritture e musiche e arti visive dei suoi anni, riusciva a tracciare mappe, percorsi, costellazioni coerenti in una produzione culturale già immensamente schizofrenica. Oggi, pochi prodotti culturali ci arrivano grazie a un legame coerente di gusto e di percorso. Nel nostro universo di folgorazioni frammentarie, tempeste sui social media, “trending topic”, algoritmi e cortocircuiti sparsi, rimpiangiamo la figura di qualcuno in grado di indicarci una rotta significativa.
Ma è nella sua produzione narrativa, che di postmoderno tutto sommato ha ben poco, che Tondelli raccoglie le intuizioni del suo tempo e le trascende. Camere separate parla alla coscienza contemporanea grazie alla sua idea di un abbandono continuo, sconfinato, impossibile. È un senso di abbandono fuori dal tempo, ma che riecheggia in modo distinto oggi. Non c’è più alcuna fuga, non c’è alcun rifugio nel mondo connesso e globale in cui sia possibile staccarsi dal dolore, dal sé, dai fallimenti e dalle insufficienze della propria soggettività. Si può espatriare, cambiare lavoro, salire e scendere dagli aerei low cost. Si può saltare da un profilo online all’altro. Si possono inventare intere nuove identità nello spazio di un’ora; cercare abbracci, lasciare amanti, reclutarne altri; lavori freelance e relazioni altrettanti freelance; consumare esperienze e ordinarne altre. Il vagare insoddisfatto, la tensione eterna ad andarsene, non fanno che produrre sfumature sempre nuove di solitudine.
Questa consapevolezza così perfettamente appartenente al XXI secolo sembrava già, in controluce, contenuta in Camere separate. E per alcuni, incluso chi scrive, quel romanzo è tuttora una lettura a cui tornare a intervalli periodici, per cercare di vedere, altrettanto in controluce, se l’umanità che trasuda dalle sue pagine possa venire in aiuto a fare i conti con il tempo attuale, con ciò che resta del famigerato postmoderno – oggi che la comunicazione, le trappole dei social media e l’isolamento che producono, sono la vera via crucis del soggetto contemporaneo; che a essere libertina è soprattutto la mente, sempre più distratta da un flusso di stimoli ridicoli e sconcertanti; che l’HIV è diventato metafora di uno stato di infiammazione cronica, latente; e le camere separate si sono fatte soprattutto interiori, nella conformazione indecisa, ambivalente, spesso quasi psicotica, dei desideri occidentali.
Uno scrittore non muore mai
di Alain Elkann
La mia amicizia con Pier Vittorio Tondelli ha origine a Parigi. François Wahl, direttore letterario delle Éditions du Seuil, mi consigliò di leggere Pao Pao, secondo romanzo di Tondelli. Lo lessi a Granada, durante un viaggio, e subito dopo cercai Pier Vittorio, che allora viveva a Milano. Ci siamo incontrati al Sant Ambroeus per un tè. Lui era molto timido, fumava, ma abbiamo presto capito che saremo diventati amici.
Ci vedevamo spesso a Parigi, A volte veniva a stare a casa e c’era anche Alberto Moravia. Fu così che decidemmo di fondare una rivista letteraria. Moravia trovò il nome, PANTA; Elisabetta Sgarbi né diventò l’editore a Bompiani; ed Elisabetta Rasy e Jay McInerney accettarono di esserne i direttori, insieme a me e a Pier Vittorio.
Quando Moravia morì mi scrisse dicendomi che avevo “una grande responsabilità”. (Era da poco uscito Vita di Moravia, una biografia dello scrittore che avevo scritto a quattro mani con domande e risposte.) Ma con Pier Vittorio non si parlava solo di libri e di letteratura. Si parlava di vita, di amori, di viaggi, di amicizie…
Un giorno mi disse che preferiva lasciare Milano e tornare a Bologna, la cittа dove aveva fatto l’universitа. Ma non m disse che era malato e io non lo capii. Pensavo che fosse malinconico, un po’ depresso. Fu Nico Orengo, allora direttore di Tuttolibri a darmi la notizia della sua morte. Fui molto triste, speravo che non avesse sofferto troppo.
Tondelli era uno scrittore vero, credeva nei libri e nella letteratura. In Altri libertini aveva saputo cogliere il linguaggio giovanile, il mondo della droga, i ragazzi e la loro rivolta in quegli anni. Era un viaggiatore, ma era rimasto profondamente emiliano, legato alla sua terra e a Correggio la sua cittа. Scriveva appunti e lettere con una penna stilografica. Era nel contempo allegro e infelice. La fede religiosa era una cosa profondamente radicata in lui; ma non so se si può dire che fosse uno scrittore cattolico come Claudel o Bernanos o come Manzoni o Testori… Parlava spesso di Isherwood e di Auden.
Posso dire che Pier Vittorio è ancora un mio caro amico – uno scrittore non muore mai perché si possono sempre leggere e rileggere i suoi libri.
Riti di passaggio e faune d’arte
di Fulvio Panzeri
Scrivere per Tondelli ha sempre avuto la prerogativa di mediare tra due aspetti, quello di osservare la realtà attorno a sé, per raccontarla però mediante il filtro di una sua interiore immaginazione, lasciando uno spazio d’ambiguità per il lettore, nel quale non si avverte quanto l’ambito della narrazione debba essere ricondotto a un’invenzione letteraria o quanto sia inevitabile pensare a una sorta di trasposizione autobiografica. È su questo punto che si gioca tutta la narrativa di Tondelli, da Altri libertini che, nella natura fortemente selvatica e acre del suo linguaggio, per molti versi, così “generazionale”, può essere frainteso come legato alla biografia dell’autore – in realtà è la trasposizione di un mondo osservato e forse proiettato al punto da essere ritenuto vero –, fino a Camere separate, dove l’elemento autobiografico risulta come cuore pulsante del libro, pur se portato dall’autore a un grado di finzione letteraria (soprattutto nel nascondimento dei nomi dei personaggi reali), al fine di conquistare la possibilità piena di un affondo interiore dentro l’intimità di un se stesso altrimenti difficile da mettere a nudo.
Se l’ambito narrativo ha bisogno di una finzione continua per diventare letteratura, nel giornalismo Tondelli sceglie invece la libertà più assoluta nel compromettere la realtà che indaga e descrive attraverso il proprio sguardo e la sua capacità di osservazione minuta, ma del tutto personale. È questa la novità che Tondelli porta nel giornalismo degli anni Ottanta, una novità che media da una tradizione novecentesca che ha sempre visto gli scrittori come osservatori e, indirettamente, interpreti del proprio tempo. Si veda quanto hanno scritto, negli anni Sessanta, nelle loro collaborazioni giornalistiche, ad esempio, Dino Buzzati, ma anche Anna Maria Ortese al 38° Giro d’Italia, Italo Calvino alle Olimpiadi di Helsinki, Pier Paolo Pasolini in India (ma anche in quel “diario in pubblico” su Vie Nuove) e non da ultimo il variegato viaggiare in Europa, tra incontri con scrittori, prime teatrali, visite a mostre imperdibili, di Alberto Arbasino che ha dato luogo a libri del calibro di Grazie per le magnifiche rose o Parigi o cara.
È proprio ad Arbasino che sembra guardare il Tondelli giornalista, superando quella stagione di invettive e di dibattito politico e sociale degli anni Settanta, che aveva caratterizzato e cambiato anche il ruolo degli scrittori come giornalisti – anni segnati dagli “Scritti corsari” di Pasolini, dagli interventi di Moravia, di Sciascia, di Testori su una realtà italiana che aveva bisogno di confronti sulla crisi delle ideologie e sui cambiamenti radicali che interessavano la società.
Tondelli riporta alla possibilità di raccontare l’Italia da un punto di vista “pop”, estremizzando e allargando il senso del “popolare”, andando a ricercarne certi caratteri in un contesto di mutamento dei fenomeni di aggregazione; raccontando il cambiamento di una realtà giovanile che si stava lasciando alle spalle l’impegno politico, sfiduciata dalle illusioni ideologiche, in cerca di altri spazi alternativi e creativi, quali la musica, l’elettronica, il fumetto. Tondelli propone un viaggio ideale che parte dalla sua Emilia e porta verso le capitali d’Europa, a Londra e a Berlino in primis, descrivendo con leggerezza e ironia le muove tendenze, le mode emergenti, i diversi interessi, che determinano un cambiamento nelle nuove forme artistiche, dal fumetto alla Net art, dalla video arte alla prima e insuperata stagione dei videoclip musicali, che diventano scenario di un mondo e occasione di nuove sperimentazioni anche per il cinema e per il teatro – vale a dire tutte le contaminazioni che modificano i gusti di una “provincia” che resiste come “luogo”, ma vive una stagione di “riti di passaggio”.
Sceglie soprattutto testate “giovanili” per raccontare questo suo “vagabondaggio” tra le “élite culturali”, ma anche dentro il kitsch della Riviera Romagnola, che diventa quasi un paesaggio ossessivo per capire l’Italia, le sue finzioni, la voglia assoluta di divertimento e di una diversa trasgressione. Ciò che conta è il suo sguardo curioso, da osservatore, che non giudica, ma registra impressioni, accumula nuovi e variegati spunti per la rappresentazione di un mondo al quale non riesce ad appartenere del tutto (proprio in virtù di un’emotività che lo separa), ma del quale diventa una specie di video maker su carta, attraverso una scrittura che cambia continuamente registri: è ironica e divertita, partecipe e istintivamente solidale, spesso accorata e malinconica.
A un certo punto il viaggio che inizialmente è discontinuo e frammentato su vari giornali (Il Resto del Carlino, Linus, Corriere della Sera, L’Illustrazione italiana, L’Espresso, lo stesso Flash Art) ha bisogno di trovare una stabilità, un punto fermo, la possibilità di un luogo che possa permettere anche un dialogo continuo e diretto con i lettori. Lo trova su una rivista musicale, Rockstar, e in una rubrica, “Culture club”, che rappresenta la possibilità di raccontare il suo “giro” in una “provincia” allargata, per affermare ancor di più lo stretto legame che intercorre tra il suo sguardo e le ambiguità della realtà – uno sguardo che si ferma nelle discoteche frequentate, sulle immagini dei concerti, sui libri letti, in istantanee di paesaggi umani che gli permettono di esplorare una propria intimità da condividere.
Tondelli in questo è stato unico, nella capacità di radicalizzare su di sé il mondo che il suo sguardo ha intercettato, come unico resta il modello di Arbasino al quale lo scrittore emiliano sembra aver guardato. Oggi il giornalismo è cambiato e anche agli scrittori viene chiesta una diversa presenza. Più che essere “testimoni” del proprio tempo, viene generalmente proposto loro di percorrere non uno spazio aperto e multiculturale, ma il luogo che è considerato di loro pertinenza, quello della letteratura, un territorio dal quale anche Tondelli non si distanziava, ma che sapeva riportare alla sua multiforme visione di realtà. Così oggi è più difficile che emerga il tema della “contaminazione” continua che caratterizza lo spazio di scrittura giornalistica che ha determinato l’unicità tondelliana: contaminazione tra generi (musica, letteratura, arte, teatro, fumetto, geografie umane), ma anche contaminazione continua tra scrittore e paesaggio artistico e sociale, dove anche quella che poteva sembrare un’inchiesta nasceva non da ragioni sociologiche, ma da un bisogno intimo di contaminazione attraverso lo sguardo. Questo è un aspetto che ha fatto di Tondelli un giornalista anomalo, portandolo ad essere un artista in cerca di una “fauna d’arte”, con la quale porsi in relazione non esaustiva, non critica, ma vissuta nel provvisorio spazio di tanti “weekend” all’insegna di un postmoderno fortemente italiano.
La sopravvivenza della letteratura
di Giacomo Giuntoli
“L’esperienza giovanile degli anni Settanta, suicidatasi per gran parte in fenomeni di illegalità e tossicomania, ha fatto il deserto. Ma in quell’ansia distruttiva, suo malgrado, non è riuscita a strappare quel fiore. Quel fiore è lì, adesso. Quel fiore siete voi. ” [Pier Vittorio Tondelli, “Gli Scarti”, Linus, giugno 1985]
“Se volete proprio scrivere, fatelo. Con umiltà, ma fatelo. E anche con l’orgoglio di sentirvi i narratori della vostra vita.” [Pier Vittorio Tondelli, “Goodbye & Hallo”, Rockstar no. 79]
Con questi auspici nacque il progetto Under 25, non certo con intenti sociologici o, peggio, con il fine di creare un canone estetico. Tondelli nel 1985 compie trent’anni. Un’età che per lui rappresenta un vero e proprio spartiacque perché, citando le parole di Ingeborg Bachmann, “quando un uomo si avvicina al suo trentesimo anno di età, nessuno smette di dire che è giovane. Ma lui ha l’impressione che non gli si addica più definirsi giovane” [Il Trentesimo anno, Adelphi 1985, p. 23]. Così, alla stregua di un fratello maggiore, decide di supervisionare la creazione di un’antologia in cui i giovani al di sotto dei venticinque anni potessero esprimersi senza pressioni editoriali. L’iniziativa, pubblicizzata da importanti quotidiani e riviste nazionali, avrà un grande successo e così usciranno ben tre volumi: Giovani blues (1986), Belli e perversi (1987) e Paper gang (1990), tutti per i tipi di Transeuropa. Per alcuni dei giovani scrittori coinvolti l’esperienza Under 25 non sarà fine a se stessa. Si pensi ai casi di Silvia Ballestra, Romolo Bugaro e Andrea Canobbio che attraverso il progetto poterono usufruire di un vero e proprio trampolino di lancio.
Under 25 è solo una delle iniziative editoriali che Tondelli curò nella seconda parte degli anni Ottanta. Brevi ma non meno importanti sono state la direzione della collana Mondadori “Mouse to Mouse”(1988), dove in quel caso furono i romanzi a fare da protagonisti (solo due testi pubblicati: Hotel Oasis di Gianni De Martino e Fotomodella di Elisabetta Valentini), e la fondazione, insieme a Alain Elkann e Elisabetta Rasy, della rivista letteraria Panta.
Tondelli contribuisce solo al primo numero di Panta con uno dei tesori nascosti della sua produzione, “Viaggio a Grasse”: quella che in origine doveva essere un’intervista a Frederic Prokosch, morto poco prima della visita di Tondelli, si tramuta in un intenso pellegrinaggio nella casa dello scrittore di Voci. Questo testo incarna bene uno degli aspetti fondamentali della poetica tondelliana. Per Tondelli la scrittura si situa in uno spazio “separato”, ossia “là dove tu non sei” per dirla con il Roland Barthes di Frammenti di un discorso amoroso, ed è, al contempo, comunicazione “di un cuore a un altro cuore”, caratteristica che l’autore riscontrava soprattutto nei romanzi epistolari francesi del Settecento, cui dedicò la sua tesi di laurea, purtroppo ancora inedita. L’assenza dell’intervistato non compromette la possibilità di un dialogo serrato con lo scrittore correggese perché nella casa di Grasse, ormai disabitata, vi è la sopravvivenza della letteratura, della sua carne e delle sue pagine.
Un dialogo simile è accaduto in seguito, seppur a parti invertite, fra Tondelli e noi, i critici. Non è possibile, a mio avviso, parlare di letteratura contemporanea italiana senza parlare di Pier Vittorio Tondelli. Un articolo di Giorgio Fontana è intitolato in modo significativo: “Perché facciamo ancora i conti con Tondelli?” [Internazionale, 12 settembre 2015] Non credo basti elencare i lodevoli esiti ottenuti dalle sue attività di scrittore, giornalista, curatore di antologie, agitatore culturale. Non credo nemmeno sia sufficiente, come Fontana sostiene, reputare che la risposta sia nello stile e qui cito: “perché sa essere di una esattezza strabiliante, malinconico e luminoso come pochi altri, eppure sempre cosciente della sua diversità e modernità; forgiato dalla commistione di materiali extraletterari e classici come Roland Barthes, Ingeborg Bachmann o Christopher Isherwood, dalla Beat Generation e dalla passione per il rock”.Giustissimo. Ma forse manca ancora qualcosa che risulta determinante per dimostrare come Tondelli sia, senza ombra di dubbio, un classico: ovvero, le riflessioni di teoria della letteratura presenti sia nei progetti editoriali da lui curati che nelle sue opere.
Qual è il rapporto fra autore e parola umana? Chi è la voce narrante nel testo? Questioni di poetica che Tondelli si pose incessantemente fino a quando, in Camere separate Leo, il protagonista del romanzo in cui traspare in filigrana la voce dell’autore, sembra trovare una risposta definitiva: “Sente insomma quel libro, o altri che ha scritto, come il suo corpo spogliato. Non una emanazione di sé, una proiezione, un transfert, ma proprio, realmente, il suo corpo” [Camere separate, Bompiani, Milano, 2014, p. 92]. Questo concetto viene ampliato e ribadito proprio poche pagine prima della fine del libro: “La sua diversità, quello che lo distingue dagli amici del paese in cui è nato, non è tanto il fatto di non avere un lavoro, né una casa, né un compagno, né figli, ma proprio il suo scrivere. La sua sessualità, la sua sentimentalità si giocano non con altre persone, ma proprio nell’elaborazione costante, nel corpo a corpo, con un testo che ancora non c’è” [op. cit., p. 207]. E se, come dice Tondelli, prendendo le mosse da Peter Bichsel, leggere è qualcosa di corporale, allora noi siamo costretti ad attraversare la sua opera nella consapevolezza che il nostro gesto del leggere è sì un atto solitario, ma anche un atto in cui due corpi, uno in dissolvenza e uno già dissolto, di cui è rimasta un’incarnazione sotto forma di linguaggio, si fronteggiano nel dolore del cosmo.
Così risulta evidente in che modo non solo Tondelli, nella sua prima fase, abbia fornito un canovaccio operativo per la scrittura generazionale degli anni Novanta, ma anche come stesse formulando, durante la seconda fase, riflessioni teoriche straordinariamente attuali che ridefinivano il rapporto fra autore e lettore, opera letteraria e voce di enunciazione. Non a caso nel famoso congresso di Ancona del 1990 a cui partecipò, fra gli altri, un giovane Edoardo Albinati, pose l’attenzione sulla “figura del personaggio-scrittore che a differenti livelli e a vario titolo comincia a prendere posto all’interno di tanti nostri romanzi” [la trascrizione parziale dell’intervento di Tondelli è in Andrea Demarchi, Un ritratto a memoria, Cattedrale, Ancona, 2008, p. 14]. Quindi, a ben vedere, nessuno meglio di lui riuscì ad incarnare una stagione che fu davvero, in tutto e per tutto, un weekend postmoderno, in cui alcune strade stavano estinguendosi e altre stavano aprendosi – strade che, con una notevole capacità rabdomantica, il nostro aveva intuito.