Barbara Casavecchia: Sei arrivato a Milano, dalla Sicilia, quindici anni fa. Cosa hai studiato a Brera?
Pietro Roccasalva: Mimando il tempo che si applicava metodicamente a passarmi, mi sono applicato con altrettanto metodo all’artificio per passare il tempo, come si fa col pomodoro.
BC: Perché la tesi su Florenskij1 ha cambiato il tuo modo di pensare alla pittura?
PR: Florenskij sostiene che in un dipinto esistono forze, come quella magnetica o di gravità, in grado di alterare le caratteristiche del reale, e che la loro attività si manifesta soltanto in presenza di una corrispondente sensibilità del contesto. Questo pensiero ha confermato la mia intuizione: se la “purovisibilità” non sussiste e il quadro è una tavola di informazioni, diagramma di forze pluridirezionali e pluridimensionali, contaminarlo, “uscirne” o “superarlo” eliminandolo, è un falso problema. Per questo si presentava la possibilità di portare a compimento la pratica “impura” del collage, iniziata un secolo fa con l’inclusione della realtà contestuale all’interno del quadro, per poi estendersi fino alla totale sostituzione dell’una all’altro. L’estremo risvolto logico del collage è l’inclusione in esso del quadro. Questo circuito dalle potenzialità metamorfiche ha coinciso con tutto il lavorio interno-esterno del cantiere, e si è delineata così quella che ho definito “situazione d’opera”.
BC: Alla radice delle “situazioni d’opera” sembra trovarsi spesso una narrazione, un testo. Perfino la “fisima di Zurvan” che ricorre nei titoli è frutto di un incontro fortuito in biblioteca…
PR: È un equivoco, non parto mai dalla narrazione. Il testo a cui ti riferisci non è già scritto, sono le immagini a generare i frammenti di un discorso, un canovaccio che può servire a raccontare la mostra come si fa con la trama di un film o di un’opera teatrale. Detto ciò, è probabile che l’insieme delle situazioni d’opera possa via via costituirsi come unico racconto a puntate o poema in “fisime”, di cui però l’autore è Zurvan. Distinto dal Crono greco, nel pantheon iranico preislamico, Zurvan Akarana è il tempo come “situazione” nella quale i figli gemelli Ohrmazd e Ahriman, rispettivamente principio divino della luce e delle tenebre, si contendono il dominio sulla creazione in battaglie termiche che durano interi cicli. Quanto all’episodio della biblioteca, molto tempo fa trovai un raro volume in inglese sull’argomento e decisi di riscriverlo a mano, in un taccuino, anche senza capirne il contenuto: un modo per farmi leggere dal libro, se non potevo leggerlo io.
BC: Pensi che un’espressione cinematografica come “fuori campo” sia adatta per descrivere i meccanismi di funzionamento di alcune tue opere?
PR: Può verificarsi uno strano concatenamento: una situazione mobile, che fa da cornice all’immagine fissa in essa incastonata, diventa a sua volta immagine fissa e viene incorniciata da un’altra situazione, e così via. Nella vertiginosa messa in abisso, la stessa linea di fuga tiene insieme inquadratura e fuori campo, ergon (opera) e parergon (fuori-opera). In tale promiscuità, il vivente si apparenta all’artificio pittorico e il quadro diventa processore di questo divenire inorganico. A conferma di ciò, trovo che nel quadro come “artificio intelligente” ci sia la letterale rivolta del genere “minore” della natura morta: nato nel Cinquecento sul rovescio (fuori campo) di certi dipinti come vanitas degli stessi, l’incomodo ornamento si riversa nel campo dell’opera e ne critica lo statuto maggioritario dall’interno, de-generandola in un simultaneo campo-fuori-campo.
BC: Con la tua installazione Jockey Full of Burbon (2003), che portava lo sguardo “al di là dello specchio”, o con la scelta dell’immagine di Pierino Porcospino in The Oval Portrait. A Ventriloquist at a Birthday Party in October 1947 (2005), sembravi evocare il potere delle fiabe di far convivere realtà e artificio. Ti sembra una forzatura?
PR: Come tutti i mancini, mi capita di passare sul rovescio dello specchio a forza di scivolare lungo la sua superficie. Lupus in fabula, il quadro funziona da obiettivo attraverso il quale, come il magnete, uno sguardo retrospettivo rapisce e divora quello dello spettatore. Qui si svela ciò che nell’esperienza in generale è celato: guardare là da dove si è visti è la sensazione che, al di là del principio di piacere, attrae e persuade all’abbandono.
BC: In un saggio dello studio d’architettura Objectile, c’è una frase che sembra scritta per te: “I Sofisti sono dei fabbricanti d’immagini che fanno del morphing con la sola retorica”. Uno dei tuoi primissimi lavori è un trittico in cui fondi il tuo viso con quello di tuo nonno e di tua sorella Bruna — un morphing. Perché la sofistica è uno dei tuoi punti di riferimento teorici?
PR: Da pittore di Xenia, attratto dal mistero dei resti, mi sono interessato a Gorgia in quanto scarto della Scuola d’Atene di Raffaello: a sinistra della scena si vede il filosofo di Lentini scacciato fuori-campo, mentre Platone e Aristotele dominano l’inquadratura. Gorgia, lo straniero, è destinato a riconquistare quella scena con la forza musicale del discorso, usato come farmaco al di là o al di qua di ogni rassicurante identità fra il pensiero, il linguaggio e le cose. Ne La farmacia di Platone, Derrida dimostra come Platone, per distinguere le copie buone delle idee da quelle cattive, o simulacri — una distinzione che i sofisti tendono ad annullare — si serva di un proprio phàrmakon (strumento sofistico per definizione, in quanto intrinsecamente ambiguo, che può funzionare come veleno o rimedio a seconda dell’uso). La differenza tra filosofo e sofista sfuma, come quella tra copia e simulacro. Se esistessero entità incorporee o metafisiche, non si relazionerebbero alle cose secondo il principio di identità. Per esempio, quel trittico fotografico mi sembra un dialogo tra anime che, “insufflate” in tre corpi impassibili, trasmettono agli stessi le modificazioni conseguenti alla loro circolazione. Le figure, ritratte (ritirate, letteralmente) allo stato di maschera, perdono età, identità e genere, mentre acquistano il potere di veicolare i “soffi” metamorfici che li possiedono. In opere successive, la polvere di pastello (pigmento puro non fissato) sarà il materiale più adatto per visualizzare quelle insufflazioni in complicate configurazioni di superfici.
BC: Qual è il tuo rapporto con la tradizione? In che chiave hai iniziato a realizzare dei “D’après”?
PR: “L’estremo risvolto della perdita del centro è il centro della perdita e il suo nome è Giocondità”: l’incipit del mio testo di presentazione del cantiere, Le Fisime di Zurvan, chiarisce il rapporto con la tradizione. La cattedrale Giocondità è una macchina celibe che accompagna il collasso del sistema solare. L’edificio, inabitabile, alieno, è l’apoteosi del perturbante in architettura: finché ci sarà il sole la sua cupola continuerà a girare, spremendolo, per arrestarsi solo quando l’astro si spegnerà e l’edificio diventerà il suo reliquiario. Una delle declinazioni pittoriche di questo macinino è la serie inaugurata con D’après La Tempesta (2006). Nel quadro, dello stesso formato dell’originale di Giorgione, i “pigmenti de La Tempesta” si presentano in stato di quiete definitiva, monocroma e monotona, dopo che una “tempesta di pigmenti” ne ha provocato l’entropia.
BC: Perché questa è un’intervista “scritta” e non “parlata”?
PR: Perché questo è uno scritto che “intervista” e non “parla”.