Marco Senaldi
Critico d’arte e curatore
Penso che la pittura non sia affatto una lingua morta, mi vado invece convincendo che per la verità non è ancora nata. Proviamo a considerare l’idea di don Benedetto Croce, che un secolo fa diceva che l’opera sia tutta nella testa dell’artista che la pensa. Croce voleva dire che la pittura non è una forma d’arte a sé stante ma solo il metodo migliore che l’uomo ha inventato per esprimere quel che nella mente si era già rappresentato alla perfezione — ecco perché non si smette mai di dipingere, perché ogni dipinto “reale” resta sempre inferiore alla rappresentazione mentale da cui nasce. Arturo Pérez-Reverte, l’autore de La tavola fiamminga (non a caso dedicato a un quadro) ha dichiarato che per scrivere un romanzo ci mette due anni, il primo per definire intreccio e personaggi della storia, il secondo per scriverla — ma ha aggiunto che proprio questo atto di scrivere è per lui solo una seccatura e si augura che qualcuno inventi una “macchina per mettere su carta direttamente i suoi pensieri”. Il grande pittore è uno che dipinge per disperazione, sperando che inventino anche per lui una “macchina della pittura” che traduca su tela quello che ha già in testa. I famosi media che avrebbero surclassato la pittura non rappresentano un tentativo non di distruggerla quanto di perfezionarla, di ridurre lo scarto tra idea mentale e realtà visuale? L’impiego, oggi, di software come Paintbrush (che poi vuol dire pennello) o l’uso da parte di uno come Damien Hirst di motori rotanti per realizzare i suoi dipinti “casuali” non sono altrettanti tentativi di andare verso una simile painting machine?
Marco Scotini
Critico d’arte e curatore
Non si tratta di prolungare il ritornello della morte dell’arte aggiungendo un altro necrologio al registro dei decessi modernisti. Dopo la fiera dadaista, il dirottamento situazionista, il sepolcro allo spazio di Klein e tanto iconoclasma modernista, sarebbe arrivato ora — e con grande ritardo — il turno della pittura? Non si tratta neppure di conservarne la specie in vetrine all’interno di un apposito dipartimento museale chiamato “Pigmenti su superficie” come ha fatto Jens Hoffmann, esponendo quadri recenti come manufatti etnografici. Da un lato, la nostra idea del tempo è radicalmente mutata e la definizione del contemporaneo non passa più per il binomio traguardi/anacronismi. Dall’altro, la scena dell’arte appare come un cumulo di modi di produzione in cui siamo tanto poco interessati al medium quanto un imprenditore di oggi lo è per le materie prime e i processi di produzione. Nell’epoca del “lavoro immateriale” siamo immersi in un tempo in presa diretta, o performativo, in cui la comunicazione e il rapporto sociale diventano produttivi per se stessi. Per questo la più grande pittura recente è quella che si misura con l’archivio del tempo e della fotografia. Anche se è vero che i bianco/nero di Vija Celmins, i salti temporali di Neo Rauch, le opere datate di Luc Tuymans, fino alle immagini de-saturate di Janis Avotins potrebbero apparire come l’elaborazione di un lutto. Che però non sono.
Gianni Romano
Critico d’arte
Come dice Jerry Saltz “è dai tempi di Nixon che nessuno crede più alla storia della morte della pittura, eppure molti puntano ancora su questo cavallo perdente”. Quindi viene naturale pensare che la pittura abbia incorporato questo problema di identificazione: sappiamo che esiste, che nutre grandi numeri di praticanti ma puntualmente scompare dalle grandi mostre. Non è un problema di identità, la pittura non va in analisi perché chi la pratica sa che deve re-inventarla, ma di identificazione da parte di addetti ai lavori che troppo spesso lavorano con uno zoom laddove ci vorrebbe un grandangolo.
Giacinto Di Pietrantonio
Direttore della GAMeC di Bergamo
La pittura è l’unica o una delle poche forme d’arte che non potrà mai morire. Perché non puoi immaginarla ma devi vederla realizzata. Poniamo che Cucchi, Richter, Spalletti, Kiefer dicano di star dipingendo un ritratto, un paesaggio ecc., finché non vediamo l’opera finita non sapremo mai se è riuscita o meno, al contrario di un’installazione o di un ready made, dei quali si può dire in anticipo, almeno al 50%, se funziona o meno.
Alessandro Rabottini
Curatore della GAMeC di Bergamo
Non vedo nell’estrema popolarità di mercato che ha la pittura un necessario segno della sua qualità, anzi spesso — e pensiamo al caso della cosiddetta Scuola di Lipsia — le due cose si contraddicono. L’errore sta nel parlarne secondo il vocabolario dell’Avanguardia, che vuole l’approccio ai media in termini di specificità, mentre questo è contraddetto dalla pratica degli artisti. Ho avuto la fortuna di curare mostre di artisti come Johannes Kahrs, Victor Man, Pietro Roccasalva e Ian Tweedy che, in modi diversi, fanno un discorso sulla pittura estremamente libero. Non è un caso se nelle conversazioni che ho avuto con loro non ho mai sentito parlare di stile né della pittura come un linguaggio, e questo è sintomatico di uno scarto tra la pratica artistica e quella critica e/o curatoriale, a vantaggio della prima.
Andrea Lissoni
Critico d’arte e curatore
Non parlerei di una lingua morta, specie considerando almeno tre questioni per me centrali. La prima: all’interno della recente generazione di artisti legati alle varie forme di writing sono emersi autori che dimostrano uno straordinario talento e una capacità di invenzione di nuove relazioni figura/sfondo, corpo/paesaggio, figurazione/astrazione. Non so se definirei Blu, Ericailcane, Canedicoda pittori, ma è indubbio che rimettano in gioco radicalmente questioni legate alla tradizione della pittura attraverso la strada delle sottoculture. La seconda: l’animazione (meglio il suo “ritorno” o la sua glamourizzazione) ha consentito a ottimi “pittori” di rievidenziare la propria ricerca; la cosa vale nei due sensi: dall’animazione/illustrazione verso l’arte e dalla pittura tradizionale verso l’animazione (i casi sono molti, da Alessandri Pessoli a Stefano Ricci alla giovane Marta Roberti; e a livello internazionale, da Shrigley a Sasnal). La terza: è indubbio che mettersi a esplorare aree territoriali nei coni d’ombra geografici dell’informazione del sistema dell’arte (per essere generici, Balcani, Caucaso, centro Asia soprattutto, America Latina fronte Pacifico) significhi confrontarsi con una storia della pittura spesso di grandissima qualità che ha il pregio di rimettere in gioco produzioni “moderniste” (anni Cinquanta e Sessanta) pronte a entrare prepotentemente in impreparati mercati locali alla cerca di identità, o anche internazionali, alla ricerca di segni e gusti che riorientino il presente.
Pier Luigi Tazzi
Critico d’arte e curatore
Amo la pittura, da quella rupestre di Lascaux e Altamira a quella di Marlene Dumas, Luc Tuymans e Peter Doig, a quella recentissima praticata da certi artisti isan, da Nim Kruasaeng al giovanissimo Jirayu Rengjaras. Era agli inizi di tutto, sarà fino alla fine, di tutto. Ma la pittura è una faccenda oscura, parafrasando Boetti. Ce n’è tanta, troppa, assolutamente detestabile e pretestuosamente terapeutica. Il grande mercato ci “zazza”, il second hand market ci specula con enormi profitti, il nuovo pubblico dell’arte vi si consola. Ma io amo profondamente, e da sempre, la pittura.
Cristiana Perrella
Curatrice del Contemporary Arts Programme della British School di Roma
Gli artisti non si chiedono se la pittura sia viva o morta. A essere finita è la definizione dell’arte per linguaggi. La pittura è una possibilità, praticabile accanto alle altre: si dipinge e si fanno installazioni, video, performance, senza alcuna contraddizione. Basti pensare ad artisti come Pietro Roccasalva, Roberto Cuoghi, Chris Evans, Erik van Lieshout, Spartacus Chetwind, Assume Vivid Astro Focus, ecc. L’arte oggi mi sembra più che mai contraria a una lettura preferenziale, unificante. La stessa pittura sfugge alle definizioni, si è fatta spazio praticabile, è rappresentazione ma anche auto-riflessione, concetto, manualità, tecnologia. Ciò non toglie che non si possa scegliere di lavorare nell’ortodossia del mezzo e con esiti straordinari, vedi Sasnal. Una condizione di incertezza, di imprevedibilità, che rende la pittura invece molto contemporanea.
Elio Grazioli
Critico d’arte e curatore
Non credo che la pittura sia diventata una lingua morta e non mi pare sia ghettizzata, neppure dai campioni della critica d’arte. Uno degli artisti viventi più cari al mondo è ancora un pittore, Peter Doig. Il problema però esiste e fate bene a rilanciarlo. Il fatto è che la pittura, ma anche la fotografia, il video ecc. sono diventati media “sfruttati” a fondo e dunque, io dico finalmente, sono tornati difficili. Nello specifico sulla pittura, è forse nelle accademie che la pittura negli ultimi tempi è, o è stata, ghettizzata, perché i nostri colleghi non sanno che dirne e farne. Dalla pittura potrebbe venire addirittura un rinnovamento dell’arte in generale che sintetizzerei proprio con le parole di Doig quando gli chiesero perché avesse scelto la pittura: “Perché mi sembrava una nicchia, un’attività un po’ a parte. Era quasi come diventare poeta”. Avrei potuto rispondere la stessa cosa riferendomi alla fotografia o al video, citando altri invece di Doig. Altri chi? Altri artisti. Il problema sta piuttosto qui.
Gian Marco Montesano
Artista
Caro Giancarlo,
Senza nemmeno la felicità di poter star fuori dalle “beghe economiche” di una “società di venditori che preparano compratori (attenzione, qui rientri in ballo anche tu come preparatore, allenatore di compratori virtuali e non), senza amore e felicità meglio tornare a Lourdes, certo non per cercare l’umano (che poi sarebbe l’arte) ma la Madonna, per chiedere la grazia di tornare stupido sì, ma giovanissimo, anzi bambino. Ecco, vedi, te l’avevo detto che la questione della pittura era brutta, pericolosa e avrebbe evocato tutti gli spettri che si aggirano nella psicologia degli umani liberi, saggi, indifferenti al mercato e al successo economico, quegli umani che dipingono per “bisogno naturale”, con “semplicità istintiva” per “soli fini artistici”, spettri che covano l’odio dei giusti contro una società che stritola i valori eterni dell’arte. Adesso, caro apprendista stregone, ne vedrai legioni di questi spettri, verranno di notte a tirarti per i piedi, impedendoti anche di sognare montagne di Dollari, belle donne e tutti quei sogni che, solitamente, addolciscono il sonno di coloro che sono privi di saggezza e di libertà. Ti ci vorrà l’esorcista perché la stupidità in quanto tale non esiste, non è un Virus isolabile, è una componente umana. Una folla sconfinata di saggi, liberi, pittori, umani e ricercatori dell’umano ti aspetta al varco. Credo proprio che sia urgente andare a Lourdes. Prego per te.
Maria Rosa Sossai
Critica d’arte e curatrice
Già da tempo la pittura non riesce a intercettare l’attenzione del gotha dell’arte contemporanea internazionale, di osservanza strettamente concettuale; ma forse si potrebbe dire lo stesso per qualsiasi opera che faccia appello alla sua appartenenza a un genere artistico. Le ragioni sono da ricercarsi in un progressivo declassamento linguistico-critico dei generi, che non ha nulla a che fare con la loro floridezza economica nel mercato. In questo senso, il linguaggio si conferma l’indicatore per eccellenza delle tendenze: se in passato il termine pittura era sinonimo di arte, oggi descrive letteralmente la tecnica pittorica. Prioritario è il pensiero artistico, di volta in volta tradotto in dipinti, scultura, film ecc. La sfida oggi, afferma l’antropologo Bruno Latour, non è solo di gestire e produrre (nel nostro caso un’opera) ma di pensare il proprio tempo, di “proporre dei concetti che cerchino di catturare l’esperienza attuale di una molteplicità di attori”.
Alberto Mugnaini
Critico d’arte e curatore
Se dovesse esprimere il senso di un destino, la formula “ut pictura poesis” sembrerebbe sancire una doppia crisi. Come la poesia è scaduta da ricerca letteraria a sfogo di massa via Internet, così la pittura starebbe seguendo una simile sorte: praticata da una moltitudine ed esiliata dai centri di potere. Bisogna però distinguere la sua inadeguatezza alle esigenze di spettacolarizzazione da un effettivo impoverimento delle sue potenzialità sintattiche. Non mi sembra che oggi, come linguaggio, appaia maggiormente logorata del video per esempio. Il problema è che la pittura postula una memoria e una cultura simbolica che mal si confanno a un’attualità incancrenita nel rispecchiamento di se stessa. Artisti come David Hockney e Gerhard Richter hanno aperto nuove strade che pochissimi però sono in grado di percorrere e ampliare. Forse il peggior nemico della pittura è proprio questo esercito spennellante e presuntuoso che ha ucciso perfino il fascino della cattiva pittura.
Gigiotto Del Vecchio
Critico d’arte e curatore
Non credo si possa parlare di crisi o di scarsa considerazione della pittura. Piuttosto, la pittura sta tentando di difendersi dai tanti pittori che cercano di denigrarla attraverso il loro atteggiamento conservatore e stantio. Oggi si parla molto di pittoricità dell’opera, di un clima che parte dalla pittura per andare in direzioni più articolate del quadro e basta. Una pittura che sperimenta e si appropria di altri linguaggi: questo è quanto esiste oggi e interessa a molti curatori internazionali. Lukas Duwenhögger, Michael Borremans, Wilhelm Sasnal, Lutz Brown, David Korty, Victor Man, Richard Hawkins, Nader Arhiman, Pietro Roccasalva: sono alcuni dei tantissimi “postpittori” in circolazione.
Guido Molinari
Critico d’arte e curatore
È vero che se nelle fiere la pittura impazza, in alcune grandi mostre internazionali viene quasi del tutto ignorata. Stiamo vivendo un trionfo di massa della creatività “fredda”: la creatività popolare contemporanea si nutre di manipolazioni di dati e di confronti serrati con la realtà. Probabilmente alcuni curatori scelgono delle linee espositive che raccontano il mondo attraverso un sentire più comune. Alcuni problemi però permangono anche nell’ambito della pittura. Molti credono che oggi dipingere implichi uno sforzo creativo maggiore, eppure alle fiere vediamo spesso dipinti di artisti che sembrano usare la pittura come uno strumento senza memoria. Complessivamente però la situazione è mutata. Tra le presenze in campo operano artisti di rilievo che sanno muoversi con ogni mezzo espressivo.
Paola Noè
Critica d’arte e curatrice
Il problema in questione — che c’è e si percepisce chiaramente — si può riassumere nella mancanza di sperimentazione che la pittura ha dimostrato in questi ultimi anni. La pittura come genere ha sempre avuto il privilegio di essere territorio franco su cui avviare qualsiasi tipo di sperimentazione-innovazione. Lo è stata (e forse lo è tutt’ora) anche per il mercato e per i collezionisti: uno spazio negoziale, di denaro, di beni, di storia, di archivio. La risposta alla domanda, per restare in termini linguistici, potrebbe essere: la pittura oggi come oggi è passata da lingua (non morta) a dialetto: quindi, contemporaneamente, snob se parlato in casa Agnelli, volgare se parlato al mercato del pesce, nobilitato se affidato alla penna di un poeta. La morte della pittura in quanto lingua presupporrebbe l’assenza di locutori nativi, che invece sono numerosi.
Marcello Smarrelli
Critico d’arte e curatore
La stanza di Michaël Borremans alla Biennale di Berlino (2006), la collettiva “The Painting of Modern Life” all’Hayward Gallery di Londra e la personale di Johannes Kahrs alla GAMeC di Bergamo (2007), i piccoli quadri a olio di Francis Alys: sono tra le prime cose che mi vengono in mente se penso alla pittura attuale e non come sinonimi di decadenza ma come esempi di vitalità e di grande valore estetico nel qualitativamente altalenante panorama dell’arte contemporanea.
Ivan Quaroni
Critico d’arte e curatore
Oggi è lecito chiedersi come la pittura possa competere con l’efficacia immediata delle immagini generate dall’industria dell’intrattenimento. In verità, ha due sole possibilità di sopravvivere: o impara a dialogare con questi linguaggi o si definisce in opposizione agli altri media, elaborando codici autonomi. Appartengono alla prima categoria artisti come Takashi Murakami e Yoshitomo Nara, che hanno ibridato l’arte tradizionale con lo stile dei manga, degli anime e dei videogames. Pittori impegnati in un recupero di atmosfere folk sono invece Marcel Dzama, Jules de Balincourt, Jockum Nordström e Amy Cutler. All’alveo di una pittura che guarda alla propria storia come a un’inesauribile fonte d’ispirazione appartengono artisti come John Currin, Kara Walker, Kehinde Wiley, Glenn Brown e Neo Rauch. Altri, come Franz Ackermann, tentano di conferire a questa pratica antica un nuovo statuto, estendendone il dominio operativo fino a invadere lo spazio. Tutti questi artisti dimostrano con la loro presenza nelle rassegne internazionali che la pittura è un po’ come quei giocattoli rotti che la fantasia dei bambini riesce a destinare a nuove, imprevedibili funzioni.
Domenico Quaranta
Critico d’arte e curatore
La pittura deve competere con altri mezzi visuali, il problema è se sopravvive o no a essi. La mia risposta è che è sopravvissuta e sopravvive, a patto che sappia fare i conti con ciò che la mette in crisi. È sopravvissuta a Duchamp: chi oserebbe dire “stupido come un pittore” di fronte a Richter? È sopravvissuta alla fotografia, al video, a Photoshop, a Internet, alla condizione post-mediale descritta da Krauss e alla dittatura di curatori che sembrano amarla poco. A questi ultimi due fattori di crisi è sopravvissuta appropriandosi di altri media (penso a Viola, Gursky, Beecroft), affiancando a tela e pennelli altre tecnologie, ma anche uscendo dai confini del quadro, diventando installazione. Guardiamo ai grandi eventi internazionali con questi occhi e vi troveremo un sacco di pittura. Certo, non troveremo pittori “stupidi”, “retinici” o “intossicati di trementina”; non troveremo, in ultima analisi, pittori, ma artisti che usano la pittura. La pittura non è morta: il formalismo è morto, o meglio, una certa versione di esso. E uno dei video più belli esposti in Biennale si chiamava Painting.
Eugenio Viola
Critico d’arte e curatore
La pittura non è lingua morta, anzi, una serie di dati incontrovertibili conferma che gode di ottima salute: il mercato, le fiere e le biennali (“Pittura: da Rauschenberg a Murakami”, a cura di Francesco Bonami, Museo Correr, Venezia, 2003; “Expanded Painting”, a cura di Helena Kontova e Giancarlo Politi, Prague Biennale, 2005) attestano un’inversione di tendenza avvenuta già da alcuni anni. Diverse mostre — da “The Triumph of Painting” (Saatchi Gallery, Londra, 2005) alla più recente “Painting Codes” (a cura di Andrea Bruciati e Alessandra Galasso, Galleria Comunale di Monfalcone, 2006) — hanno riportato in auge il dibattito critico sulla pittura. Il medium pittorico risponde ormai a parametri puramente estetici, utilizza una pratica autoriflessiva. Non a caso attinge a piene mani alle strategie estetiche della contemporaneità: spaesamento, ironia, citazione meta-stilistica, collegamento intertestuale. Con l’avanzamento delle tecnologie e del virtuale, la pratica pittorica si è imposta come luogo dello sconfinamento e dell’ibridazione, rinnovando il proprio statuto. In questo senso, diventa un ipertesto.
Fabiola Naldi
Critica d’arte e curatrice
Siamo alle solite. Ogni volta che ci si trova a un importante crocevia estetico si ripensa alla “vecchia” pittura e la si considera allo stremo o addirittura defunta. In realtà, mai come ora tutti quei mezzi dichiarati antichi (incisione, xilografia, acquaforte, affresco, murales) tornano prepotentemente, donando alla stessa pittura una giovinezza ritrovata. Basterebbe dire che quando la piattaforma tecnologica si rende così disponibile da rendere quasi ovvio il suo utilizzo, alcuni si rifugiano nella ricerca al contrario, andando a vedere come le vecchie tecniche si possono comportare investite della curiosità di un occhio avulso dai loro stessi meccanismi. Non credo che la pittura sia morta, sono i pittori a passarsela male. Se proprio dobbiamo trovare un colpevole, è da cercare tra coloro che la usano e ne abusano.
Alfredo Sigolo
Critico d’arte e curatore
Non credo nella morte della pittura almeno perché, in un modo o nell’altro, è sopravvissuta in passato a nemici ben più ostici dei curatori del nostro tempo. Credo che anzi, proprio per questo, abbia sviluppato gli anticorpi per ritagliarsi sempre un suo spazio nell’ambito delle arti visive. Desueta e anacronistica, la pittura è un medium che mostra un’evidente inadeguatezza al cospetto dei nuovi media, eppure, paradossalmente, proprio questa sua perenne posizione di ritardo la pone in un ruolo di vantaggio per evitare i punti di criticità della comunicazione contemporanea. Altra questione è quella di intendersi sulla parola “pittura”: in un’epoca in cui è condivisa l’opinione che le tecniche non sono più caratterizzanti nella ricerca di un artista, relegare la pittura allo spazio definito da una cornice e alla pratica esercitata con il pennello è riduttivo. Intorno alla pittura c’è molto pregiudizio, e mi sentirei di condividere molte delle riflessioni fatte da Jerry Saltz in un suo articolo apparso su Art in America nel ’94 dal titolo A Year in the Life: Tropic of Painting.
Davide Ferri
Critico d’arte e curatore
La pittura trae forza facendo dolorosamente i conti con i propri limiti, già da diversi decenni gioca con la sua morte e proprio per questo è indiscutibilmente viva. È invece difficile fare una valutazione a proposito della centralità della pittura nelle grandi rassegne internazionali. All’ultima documenta, per esempio, la piccola sala con i lavori di Richter e Lee Lozano, pur apparentemente marginale, mi sembrava una delle più riuscite. Inoltre nelle gallerie e soprattutto nei musei stranieri mi pare si presti ancora attenzione alla pittura (l’unica volta che mi è capitato di vedere un lavoro di Tuymans accanto a un dipinto di Morandi è stato in un museo tedesco). Il problema della ghettizzazione della pittura, semmai, mi sembra grave in Italia, dove dalla fine degli anni Novanta a oggi hanno avuto visibilità pittori nostrani che hanno confuso la figurazione con l’illustrazione. Le migliori giovani gallerie rivendicano con orgoglio il loro distacco dalla pittura, col risultato che artisti come Katy Moran, Rezi Van Lankveld, Michael Bauer, Mari Sunna, Christopher Orr, Kaye Donachie sono pressoché sconosciuti.
Andrea Bruciati
Direttore della Galleria Comunale d’Arte Contemporanea di Monfalcone (GO)
Ritengo che la ricerca debba essere intesa quale forma dinamica, modalità operativa che la tradizione assume quando tenta di salvaguardare la qualità più alta dell’arte del passato. In questo senso la sperimentazione, che riguarda anche il codice pittorico, opera in sintonia con la tradizione da cui proviene. Un cammino coerente più che un processo sincopato, al contrario così caro a chi non conosce e ama la storia dell’arte.