Per incontrare l’artista elegante, il pugile marchigiano, che racconta di essere andato a scuola dagli anarchici e dai contrabbandieri del porto di Ancona, su e giù da Montesicuro, per “indicare una distanza”, Cucchi Enzo, che si accende a scatti, che parla del coraggio di avere paura, che lavora con la testa vuota, che pensa alla pittura come a un formidabile vizio, che combatte ogni momento all’arma bianca… Per preparare questo incontro ho letto tutta la notte un libro di interviste di Roland Barthes. L’ho sempre trovato un po’ freddo, ma forse era una scelta necessaria, di disciplina. Ci incontriamo a Siracusa, la città dove ci siamo conosciuti, sull’isola di Ortigia, l’“isola che isola”, in un sottotetto di “tavolacce marroni”, lui seduto su un tavolo di Ettore Sottsass, io su una poltrona di pelle nera… bruttissima. L’interlocutore doveva essere il suo amico Mario Botta, l’architetto “che ha sfidato il Pantheon di Roma con la cupola del Mart di Rovereto”.
La testa si è riempita subito.
Enzo Cucchi: Per la prima volta, è stato giusto creare questa resistenza, al di là della stima. Gli argomenti di ciascuno vanno messi agli atti. D’altra parte anche oggi dobbiamo fare questo.
Salvatore Lacagnina: Potremmo proporre a Giancarlo Politi un’idea di copertina, che abbia il valore di una responsabilità culturale (provo a incalzarlo subito).
EC: Immagina una copertina dove scriviamo: sì… sì… sì… no… no… Lui può anche non accettare. Ma deve scriverlo. È un modo di segnalare una cosa, nel rispetto reciproco, per dire che siamo buoni amici. Altrimenti di che parliamo?
Si ripete, gira intorno agli argomenti, aspetta una domanda.
EC: Gli architetti hanno voluto la politica come interlocutore. Ogni tanto tornano all’arte. Sono artisti mancati. Si sono masturbati per anni con la scienza, con la tecnologia (dice questo e anch’io mi sto fidando di questo registratore che non si accende…) e tutte le vetrine della politica e del sociale, tralasciando i problemi dell’architettura come oggetto formale, che serve per fare orizzontare le creature umane.
Non dovrei preoccuparmi del registratore. È un problema di memoria e di scrittura, la parola orale che si traduce in parola scritta, come dice Barthes “gli ottimisti pensano che l’intellettuale è un testimone. Io piuttosto direi che è una traccia”. Mi devo fidare del filosofo francese.
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EC: Sono molto onorato di rilasciare questa intervista a lei. Lei è il giovane Time-ato? Mi chiede questa intervista per la più prestigiosa rivista d’arte d’Europa? È nata in quel meraviglioso paesino umbro, Trevi, la prima capitale d’Italia… ah, no… la prima e la più antica capitale d’Italia è S. Leo… Comunque faccio i miei complimenti al Direttore.
Non ho mai amato le interviste, ci si trova ad accettare incondizionatamente la parola dell’interlocutore. E Cucchi poi non vuole mai parlare del suo lavoro.
EC: Se lei incontra una mia barca piena di tutte le mele del mondo, ci mettiamo a parlare della mele? “Perché la barca è piena di mele?” Che c’entrano le mele? Semmai potremmo riflettere sulle stagioni del mondo, che forse, da un punto di vista letterario è più interessante. Da un punto di vista formale, una mela in più o una mela in meno è un bel casino. La barca si rovescia. E a quel punto ti disorienti. Perché non trovi più l’armonia, gli equilibri.
Il suo approccio è radicale, antico se si vuole, obsoleto forse.
EC: Ma proprio oggi che tutto è collassato (si anima) l’arte è in assoluto la cosa più sofisticata che si possa fare. E la pittura, in particolare, è un privilegio enorme.
A lui interessa quella falda di resistenza, quella incertezza del materiale che però “non ti disorienta mai, perché non può fare né bene né male.”
SL: Ancora “pittura sì, pittura no”?
EC: Ma alla pittura non puoi arrivarci per via concettuale, è una posizione così naïf che mi sorprende. Devi sentire il peso, la sostanza della materia, che arriva da un luogo così lontano… È un’abitudine che non ti togli di dosso, un vizio assurdo, come uno specchio al mattino.
Cucchi pone tutto su un piano spirituale, ma la sua sfida è sempre con il mondo, con lo zoccolo duro dell’esistenza. Eppure l’arte deve produrre degli effetti, anche oggi che la società pensa di farne a meno e, mi dico, gli dico, siamo stati noi, dall’interno, artisti, critici, intellettuali, a toglierle il detonatore. “Ma è l’unica salvezza che abbiamo”, mi interrompe.
EC: Vede questa piazza? È talmente bella che non puoi fare di più. Non puoi aumentare gli ombrelloni o le poltrone dei signori borghesi che sono dei sacchi vuoti di resistenza. Quante sedie vuoi mettere in questa piazza? Le persone non pesano più.
Insisto che bisogna recuperare la capacità di provocare effetti sulla realtà, è un’idea su cui rifletto da qualche mese, da quando Artur Zmijewski mi ha chiesto quali effetti producono sulla società le gallerie, i musei, gli artisti, il mio stesso lavoro.
EC: I luoghi di lavoro non ci sono più, hanno perso proprio il rapporto col guardare, col sentire le cose, le materie di cui è fatto il mondo. Ancora oggi qualcuno sostiene che un lavoro è interessante perché è “smaterializzato”. Ma Lyotard ha già risolto questo problema trent’anni fa. La generazione che è venuta dopo si è trovata in un territorio davvero smaterializzato, e ora è totalmente disorientata, non ha i mezzi per uscire da questo stallo. Anche le gallerie, come luoghi di lavoro, sono divenute così fragili, cioè smaterializzate loro stesse. Non sono gli interlocutori giusti, oggi, per dare un aiuto vero, un confronto vero alle nuove generazioni; mentre è chiaro che ogni lavoro ha bisogno assolutamente di un interlocutore, non di un palcoscenico. Al contrario, senza che io esprima giudizi, lei sa benissimo che cosa si è cercato in tutti questi anni. La via d’uscita è molto semplice, se lei mi chiede questo. È un po’ faticosa, lo so, ma l’unica via d’uscita è lavorare. Bisogna fidarsi per ricominciare, fidarsi degli artisti.
Io non ho chiesto niente, ma penso che in alcuni luoghi si stiano ridefinendo certe cose. È solo che questi luoghi non hanno l’attenzione del sistema per adesso.
Leggo ad alta voce Barthes, come un metronomo, per scandire le pause: “Cerco una scrittura che non paralizzi l’altro. E al tempo stesso che non sia familiare. Tutta la difficoltà è qui: vorrei arrivare a una scrittura che non fosse paralizzante e pur tuttavia non cameratesca”. “Non ci si mette la spina dorsale”, mi interrompe quasi prima che finisca di leggere, si alza, gira intorno al tavolo.
EC: Ci sono pagine anche troppo ben scritte, ma non hanno la spina dorsale. Che è fondamentale in tutto, oltre a essere un bel segno. Nessuna creatura umana ha mai avuto una spina dorsale forte come quella dello schiavo. Nessuno si è avvicinato così tanto a un’idea di libertà. Finalmente, ancora una volta, questa cazzo di parola “libertà”. Quanto è eccezionale e speciale l’idea schiava! Un pensiero schiavo di altri pensieri. Che sa calcolare, con precisione incredibile, la distanza di qualsiasi oggetto che vede a terra. Sa esattamente dove batte un filo di luce. E questo è lo splendore. È necessario che la scrittura ritrovi questo tipo di qualità.
E il problema adesso è mio, un problema di scrittura e non di tecnologia.
EC: Sì, ma è una storia che viene da lontano, quando i critici invece di uscire dalle mura ideali della città, e poi tornare indietro, per mirare con più precisione, si sono fatti trasportare in tasca dal sociale. È inutile che faccio i nomi, li conosce bene.
Occorre assumersi le responsabilità, e questa nostra chiacchierata diventa un mio rischio di scrittura, soprattutto adesso che gli chiedo di questa corsa delle gallerie d’arte verso il design, a lui che negli ultimi anni ha condiviso molto lavoro con Ettore Sottsass.
EC: C’è un tessuto culturale che non solo non ha voluto vedere, ma ha anche fatto resistenza e disinformazione totale. Noi cos’altro possiamo fare? Ma chi c’era il giorno dell’inaugurazione al Maxxi?
Io ricordo bene la “Mostra Ristretta” e la posa della prima pietra del Maxxi. Sottsass dietro, Cucchi davanti, che si girava continuamente, seduti tra il pubblico, tranquilli. Neppure il Ministro della Cultura li ha riconosciuti. E tutti “come al cinema rivolti al tavolo vuoto, ad aspettare la signora Zaha Hadid”. E ricordo che lei, con gentilezza orientale, si inchina davanti a loro. E nessuno si accorge di nulla.
EC: Che scena da dopoguerra. La lingua spugnosa della signora Zaha Hadid, e “appollaiatillà”, come su un tappeto volante, un giovane Colombo e Pio Baldi con le sue cocorite.
Si accende di ironia. È questo il suo modo obsoleto di dare all’emozione il primato su tutto, di mettere agli atti le idee, con grande senso di rispetto: “Perché tutte le cose possono andare a folle, ma il cuore pompa, si accende, oppure sta fermo”. Riprovo a parlare del suo lavoro, delle sue sculture, che, mi dice, “sono proiezioni di fantasmi che nascono da altre immagini”. Del gesso, “che va trattato come carta, perché, quando si dice che una cosa è di gesso, vuol dire che è morta”. Ma il bronzo può essere molto decorativo, penso, dico.
EC: I materiali li adoperi per donare qualcosa, non per conservare. E nel baratto di questo dono si cerca di essere più precisi possibile, di distinguere una cosa da un’altra cosa. La materia non bisogna amarla, anzi, bisogna odiarla nel modo giusto, come tutte le cose gloriose del mondo, che spesso sono odiose.
SL: Alla Gamec di Bergamo hai presentato una mostra di scultura…
EC: Sono lavori che usano materiali tradizionalmente considerati della scultura, un esperimento che faccio con un vecchio amico bestemmiatore. Abbiamo cominciato a bestemmiare tanti anni fa, perché essere maleducati ci sembrava l’unico modo per resistere.
Il problema è come impastare tutto questo materiale, tutte le cose che ci siamo detti. Bisogna riscrivere tutto, per tentare di restituire il clima di questa giornata, gli scatti veloci, le pause, i salti di senso. “Come togli di torno le cose? Con un’immagine. Pensa a Melville. Un vecchio davanti al mare… cosa fa? Non può certo descriverlo. ‘Tutte le cose vanno a mare. Anche le montagne vanno al mare’. Con un’immagine spazza via tutto. L’arte deve fare questa cosa… Ma il problema è che quando abbiamo finito, dobbiamo tornare al lavoro, io con i miei materiali, tu con la scrittura”.
Questo testo è stato scritto a Siracusa, in treno per Scicli, in nave da Pozzallo a Malta, in un vecchio magazzino della Valletta.