Gabriele Francesco Sassone: Un aspetto molto importante dei tuoi lavori è la trasformazione. Penso a 2017, un testo scaricato da Internet che riguarda un futuro catastrofico, trascritto sul muro con un inchiostro che svanisce, e a What I learned I no longer know; the little I still know, I guessed, una scultura realizzata con i dollari dello Zimbabwe che, al contrario, è cresciuta nel tempo. Com’è nato Give more than you take, il progetto in collaborazione tra il CAC di Brétigny e la GAMeC di Bergamo?
Pratchaya Phinthong: L’anno scorso sono stato invitato al programma di residenza al CAC di Brétigny. Invece di stare a Parigi, ho proposto al direttore, Pierre Bal-Blanc, di andare in Lapponia a raccogliere frutti di bosco. Lì ho provato a capire come avrei realizzato la mostra. Quando ho iniziato la raccolta, Alessandro Rabottini si è interessato al progetto e, in seguito, è stato disponibile a mostrarlo alla GAMeC di Bergamo. Così è iniziata la collaborazione.
GFS: E cosa ne è scaturito? Parlami un po’ delle opere…
PP: Durante la raccolta ho mantenuto una corrispondenza via sms con Pierre, chiedendogli fondamentalmente di prendere parte al dialogo per realizzare la mostra — gli avrei inviato informazioni e materiali, e lui avrebbe deciso come dargli una forma e come collocarli nello spazio. La prima opera era Tod tee sweden, meund thung moo-chit (2010): il lavoro era basato sul totale di chili di frutta che avevo raccolto e sulla stessa quantità di oggetti inutilizzati accumulati da Pierre. Il secondo lavoro è allemansrätten (2010): durante la raccolta iniziava anche la stagione di caccia, così ho chiesto agli operai di aiutarmi ad abbattere una delle torri di tiro nel bosco. La torre è stata spezzata in molti frammenti e spedita a Pierre che, invitato a sistemare i pezzi, ha deciso di riassemblarli. Il terzo intervento è stato un sito internet (http://www.givemorethanyoutake.net). Ho chiesto a Vier5, il designer che ha lavorato in stretta collaborazione con il CAC, di progettare un sito usando foto e video che avevo fatto quotidianamente durante la raccolta. Tra l’altro, alla fine del lavoro — due mesi — non siamo neanche stati pagati dai proprietari, che sono scappati via. Solo una volta mi hanno dato una piccola somma e quei soldi sono stati incorniciati ed esposti, non al CAC, ma in seguito a Bergamo.
GFS: Quindi alcune opere rimangono concettualmente identiche, ma si trasformano formalmente passando da un museo all’altro. La responsabilità non è più tua perché è come se consegnassi un kit di istruzioni al curatore. Questo implica molti rischi. Non hai paura di rimanere deluso dalle scelte degli altri?
PP: Io la vedo come una chance. L’essere deluso dagli altri è fondamentalmente uno dei molti rischi impliciti nel cercare di creare un certo dialogo.
GFS: Quindi credi molto nella condivisione…
PP: Sembra che lo stiamo facendo anche ora.
GFS: Sì. E penso che condividere voglia dire conoscere.
PP: Sì, lo penso anch’io. La vera base della condivisione deriva dal voler conoscere gli altri. Dare e ricevere fanno semplicemente parte del dialogo in cui credo.
GFS: Sono molto colpito dall’idea di “copia” e “ripetizione” nel tuo lavoro. Ho letto che quando eri bambino i tuoi genitori avevano una tipografia. Questo ha influito sul tuo percorso? Secondo te copiare e ripetere sono due azioni rassicuranti per l’uomo?
PP: Sono nato in una tipografia. Mio padre era uno scrittore che all’inizio pubblicava principalmente i suoi testi. Non sono sicuro che questo abbia influenzato il mio lavoro (come il valore stesso di copiare o ripetere in senso tipografico), ma piuttosto la “distribuzione”, che penso sia quello cui ti riferivi quando parli di azioni rassicuranti per l’essere umano.
GFS: Tutto è connesso a qualcosa. Perciò una cosa nasconde — o può diventare — altro. Mi è molto piaciuto If I dig a very deep hole…: con una linea retta hai individuato sul globo il punto opposto di Parigi (Isole Chatham, Nuova Zelanda) e sei andato lì per fotografare la luna e confrontarla con quella che si vede dalla Francia. Anch’io sarei curioso di vedere cosa c’è al polo opposto di Milano. Se penso a un lungo buco nella terra mi vengono in mente i conigli o gli archeologi. Secondo te, quando si scava lo si fa più per proteggersi o per curiosità?
PP: Se scavassi un buco da Milano sbucheresti nell’oceano, da qualche parte vicino alla Nuova Zelanda (http://map.talleye.com/bighole.php). Stavo pensando a come rompere il guscio del tempo e dello spazio delle esperienze fisiche. If I dig a very deep hole… è un’Ektachrome di due lune che sono state fotografate, una dopo l’altra, in un vasto punto geograficamente opposto. Il buco non esiste, né il modo in cui noi lo scaviamo, ma piuttosto scopriamo delle immagini che rappresentano come intendiamo la definizione degli spazi. Ciò che è vicino può risultare invece molto lontano.
GFS: Credo sia importante il legame che hai con il tuo paese, la Thailandia. Sei preoccupato per la crisi politica che lo ha investito? Io, per quella del mio paese, moltissimo.
PP: È sorprendente come lo spostamento di denaro, e il cambiamento, siano mezzi importanti per me poiché rappresentano un certo paragone con il valore delle cose. Sì, sono consapevole di quello che sta accadendo con la crisi politica della Thailandia in relazione agli altri paesi.
GFS: La responsabilità implica la libertà, perché possiamo scegliere quale sarà il nostro comportamento. Dare la nostra libertà a qualcun altro è un atto di fiducia. Quindi, che titolo vuoi dare a questa conversazione?
PP: “Mi fido di te!”