Milano sta cambiando volto. E non poco. Non credo quindi si possa parlare di scena dell’arte contemporanea in astratto, sollevandola dal contesto urbano, dalla sua storia recente e da quella futura. A seguire le opinioni sulla stampa, le dichiarazioni delle istituzioni, il proliferare di convegni organizzati da associazioni imprenditoriali e università, mai come negli ultimi tempi la città sembrerebbe attraversare una fase di autoanalisi, di ripensamento. E, molto spesso, al centro delle riflessioni sta la scena creativa e/o artistica, il suo spazio, la sua identità. Il punto però, è probabilmente un altro. Mai come di qui a pochi mesi, la forma della città cambierà radicalmente. Lo scarto con le generazioni precedenti di architetti e di intellettuali si farà finalmente più netto e percepibile. Sono in arrivo quattro “brani” (con la speranza che non siano quattro brandelli) di nuova città e dalle dimensioni non indifferenti: Isola-Repubblica-Garibaldi al centro, Portello-Fiera a ovest (l’ex Fiera), Santa Giulia a sud e Porta Vittoria a est, oltre alla scommessa, chiamiamola così, sull’area Bovisa e quella altrettanto cruciale e ancora da lanciare sul primo cerchio di periferia. Milano attende dunque, come dopo una sorta di bombardamento, un processo di espansioni e di contrazioni, una fase organica, quasi corporea e forse non più immobile. Ecco perché, per leggere la forma della scena artistica, può essere pertinente provare a guardare all’incrocio fra geografie (per quel che riguarda gli spazi fisici e urbani) e comportamenti (per quel che concerne gli artisti). Cominciamo, è inevitabile, dal vuoto al centro. Il vuoto è evidentemente quello simbolico rappresentato dall’istituzione politica e culturale, con Pac e Fabbrica del Vapore, rispettivamente potenziale Centro d’arte/Padiglione espositivo e Centro di ricerca e di creazione artistica, lasciati del tutto privi di ogni pensiero progettuale e di visione. A incorniciare metaforicamente questa condizione di inania, disegnando così un arco di quasi dieci anni, due straordinarie opere di Maurizio Cattelan: Ninna nanna (1994) da una parte, con le macerie del Pac raccolte nei celeberrimi sacchi blu, e la più recente opera Senza Titolo (2004) in piazza XXIV Maggio dall’altra. Entrambe si misurano con la città e con il suo spazio collettivo simbolico. Entrambe ne rappresentano criticamente la crisi. In mezzo, in luoghi altrettanto simbolici — corso Vittorio Emanuele e il piazzale della Stazione Centrale — e con una funzione metaforica altrettanto critica, due opere altrettanto intense: Criceto (1999) e Otto (2000) di Patrick Tuttofuoco. Quando Ninna nanna e i bambini impiccati affondavano il loro colpo nel cuore della coscienza politica e della sensibilità milanese, anche Criceto e Otto, pur all’interno di tutt’altra visione autoriale, additavano un problema spinale della città: la politica dell’evento temporaneo come cultura dell’intrattenimento fine a se stesso (la logica del sistema della moda) e l’erosione dello spazio pubblico, della sua possibilità di manipolazione, della sua appropriazione, anche se temporanea.
Fondazione Prada da almeno un decennio e Fondazione Trussardi più recentemente, tanto quanto, su un fronte ben diverso per risorse, Assab One e l’esperienza della Stecca all’Isola, hanno rappresentato negli ultimi anni un’ottima alternativa al vuoto, assumendosi rispettivamente la responsabilità di uno spazio di eccellenza espositiva e di uno più aperto agli esordi e alla sperimentazione. Insomma, per quanto su un terreno atomizzato, polverizzato e non certo fertilizzato, la scena dell’arte ha saputo comunque disegnare un’altra e più recente geografia della città. È così che la conoscenza delle dinamiche di recupero delle aree urbane ex industriali e la loro possibile riconversione in cultural districts, insieme a una buona dose di rischio imprenditoriale, hanno reso possibile via Ventura. Il distretto pulsa con ritmiche asimmetriche e destrutturate, ma proprio per questo contemporanee: le impeccabili mostre da De Carlo, quelle rigorose giocate sulle microintensità cerebrali o percettive di Zero…, l’occhio performativo sul cono Sud del mondo di Prometeo, le esplorazioni nel cuore del Modernismo e delle sue eredità più imprevedibili di Francesca Minini, quelle legate alla pittura più o meno espansa da Manuela Klerkx o la galleria Pianissimo, l’ultima a trasferirsi in zona. Se aggiungiamo le trasformazioni ancora a venire, l’aspettativa psicologica sulla vicina Lambretto, l’imprevedibilità della cronaca e la storica funzione “termometrica” e laboratoriale dell’arte contemporanea, possiamo ben affermare di trovarci probabilmente di fronte a un ottimo esperimento di interazione con il territorio, pronto all’uso come parametro possibile per quei brani di città in arrivo.
13 novembre 2003: dal terrazzo della Galleria Zero… si staccano, sfaldandosi silenziosi al suolo, blocchi di schiuma di una lenta cascata bianca. È da Foam di Christian Frosi, che si può provare a pensare forse a un cambiamento di temperatura e di paradigmi, con un distacco definitivo dalle due ondate generazionali più significative degli ultimi anni: quelle emerse dagli insegnamenti in Accademia di Luciano Fabro prima e di Alberto Garutti poi, con quella strana famiglia allargata nata a metà anni Novanta intorno al gruppo della casa di via Fiuggi (Gabellone, Berti, Perrone, Ligorio, Galegati, Ciracì,…) e i suoi successivi cascami relazionali. Foam non solo deborda dalla galleria e, come ogni scultura segna, per quanto provvisoriamente, lo spazio, ma diventa anche oggetto di un’improvvisata e giocosa performance collettiva. Foam segna cioè l’affacciarsi di un’altra comunità possibile, l’emergere di un altro atteggiamento e, soprattutto, un piccolo ma non irrilevante episodio simbolico dentro la memoria di una generazione in formazione. Ciò che si ritrovava a essere al centro, oltre all’opera, era la possibilità di un altro comportamento. È così che, nell’area diffusa di Loreto/Porta Venezia, a fianco alle misurate e preziose mostre nelle due sedi di Guenzani, a quelle attente al femminile e all’immagine da Raffaella Cortese, alle eleganti personali nei rinnovati spazi di Giò Marconi, si insinuano progressivamente altre realtà. Sintonizzate sugli stili di vita cultural-generazionali emergenti e con un’offerta basata sulla dimensione performativa, propongono come supplemento la condivisione di piccoli universi personali in espansione: dalla moda street alternative alla musica indie ed elettronica, dal design di ricerca, al gusto per il bric-à-brac culturale. È la storia degli eventi per le microcomunità musicali di ricerca di a+mbookstore, delle balzane mostre occasionali da N!03, degli esperimenti di nightclubbing arty a cura di Dafne Boggeri al Sottomarino Giallo — lo storico club lesbo — o, da qualche mese, dei brunch e delle serate di Ciboh, nell’omonimo spazio. È qui, o intorno a qui, in un bizzarro nuovo territorio relazionale, che si sono incontrati, senza necessariamente condividere molto altro che un’attitudine e più stili, Rebecca Agnes, Dafne Boggeri, Camilla Candida Donzella, Ciboh, Linda Fregni-Nagler, Francesca Grilli, Alice Guareschi, Moira Ricci, Simone Berti, Massimiliano Buvoli, Andrea Dojmi, Christian Frosi, Massimo Grimaldi, Nicola Gobbetto, Invernomuto, Nark Bkb, Alessandro Pessoli, Luigi Presicce, Riccardo Previdi, Antonio Rovaldi, Simone Tosca, Luca Trevisani, Patrick Tuttofuoco… E, per gli artisti più giovani, con spin off espositivi quegli stessi spazi a cui si aggiungono Care/of, dopo i minimi ma importanti lavori di restyling, Neoncampobase e, occasionalmente, Art&Gallery, o ancora Assab One, nelle due edizioni dell’omonima rassegna.
Stesso discorso nell’area Isola/Farini, con le gallerie De March soprattutto, ma anche 1000eventi, le mostre-residenza di O’Artoteca, Viafarini naturalmente, Art&Gallery come spazio di esperimenti, ma, anche, nella scena chiamiamola così, più street, nelle loro diverse tonalità e vite, lo store-gallery Biokip o gli studi-basement dove si accendono, solo per una sera, i Flash Market, rassegne-vendite di moda ready made, accessori, fanzine… tutte forme di esistenza o di resistenza che animano un ecosistema all’ombra di un quartiere di fronte e hanno una trasformazione radicale.
Un’ottima rappresentazione visivo-comportamentale di questa condizione, per le modalità espositive e anche per il ciclo di vita, fra precarietà, intermittenza e pregnanza nello spazio (all’interno e all’esterno di Neon, nella spianata della Fabbrica del Vapore) è probabilmente stata l’opera-performance di Luca Trevisani Tettonica a Placche (2006), con la partecipazione di Massimo Carozzi, Stefano Mandracchio e Simone Tosca.
Pur in un paesaggio di microclimi, di forme di vita organiche, emotive, relazionali e spesso apparentemente flebili, nella percezione degli artisti più giovani, è senz’altro Viafarini e, su un altro fronte, l’esperienza formativa alla Fondazione Ratti, che rappresentano comunque un riferimento e un momento iniziatico centrale e imprescindibile.
In uno scenario generale abitato dall’ipervisualità e dai cortocircuiti mediatici, potrà sembrare incosciente non addentrarsi nei linguaggi e, soprattutto, negli immaginari. Ma è la tensione alla personalizzazione, alla creazione di piccoli spazi, di piccole comunità trasversali, di comportamenti e di codici in particolare, il segnale da raccogliere.
E se per gli artisti più giovani un punto centrale è, o è stato, prendere le misure alla città, per le istituzioni dell’arte e della cultura contemporanea non è più o non è solo saper ascoltare. Ma disegnare visioni e, per i propri spazi, pensarne le funzioni.