La più recente pubblicazione di Arcola, storica sub label di Warp Records, è opera della band italiana Primitive Art: un 12’’ intitolato Crab Suite, seguito spirituale del debutto Problems (2013). Le quattro canzoni che compongono il disco sono condizionate dalla molteplicità di progetti dei due membri del gruppo: Matteo Pit è il direttore artistico di Club Adriatico, una delle più importanti piattaforme per la musica elettronica in Italia; Jim C. Nedd ha co-diretto con Invernomuto PICÓ: Un parlante de Africa en America (2017), un documentario sulla cultura dei sound system colombiani. Un’attenta ricerca visiva contraddistingue l’attività dei Primitive Art. La serie di fotografie e una moneta d’argento, entrambe prodotte in occasione della pubblicazione di Crab Suite, rappresentano il punto di partenza della conversazione che segue.
Ruben Spini: D’istinto associamo il granchio al pericolo, anche per il suo aspetto così alieno. Nelle fotografie che accompagnano Crab Suite mi ricorda più un utensile che un animale. Com’è diventato protagonista del vostro nuovo EP?
Matteo Pit: Volevamo un elemento che potesse assumere un ruolo centrale lungo più storie, scenari e suoni. Portare il granchio fuori dal suo habitat e immaginare in musica le conseguenze di quest’operazione: il desiderio, la scoperta, la paura. Ovviamente incarna molte delle nostre sensazioni, è un animale legato alla mia infanzia a Marina di Ravenna.
Jim C. Nedd: …e alla mia nei Caraibi. Per questo nel fondale della moneta abbiamo voluto un tramonto sul mare. La farfalla rincorsa dalle chele proviene invece da una moneta romana del periodo augusteo. Il motto simboleggiato da questo accostamento era festina lente, cioè affrettati lentamente.
MP: Che con ironia associavamo al lungo percorso di pubblicazione di Crab Suite, ma anche a una sensibilità mediterranea, balearica…
Ho l’impressione che nel vostro rapporto con il mare convivano due registri: il primo è quello della vostra progettualità multidisciplinare; il secondo è invece più intimo.
JCN: Assolutamente sì. Anche la ricerca sui Picò è stata per me il tentativo di rintracciare le mie prime esperienze di clubbing in senso lato: all’età di otto o nove anni partecipavo alle feste champeta nella mia via a Valledupar. Tornando a Barranquilla sono venuto a sapere del Guarapo, un genere che è suonato solo in una manciata di quartieri a sud della città. M’impressionava che a livello vocale fosse così simile a ciò che mi interessa portare nelle nostre performance: un’alternanza diretta di aggressività e melodia.
MP: Anche Club Adriatico è per forza di cose un progetto legato alla mia infanzia. Il logo che ho scelto è ispirato a una discoteca del mio paese, lo Xenos, un ampio edificio in mattoni ormai demolito da anni. Sia io che Jim abbiamo sempre cercato di creare delle piattaforme dove portare una visione personale. Assumendo dei rischi, anche economici, per creare degli spazi nostri. Un luogo cruciale fu la nostra casa in via Malaga a Milano, un bilocale ricavato da una vecchia fabbrica in cui ci trasferimmo nel 2011. Forse in quel periodo avevamo anche un atteggiamento di escapismo incosciente. Ci eravamo allontanati dai contesti della nostra infanzia e adolescenza – e solo più tardi abbiamo capito la necessità di farci ritorno
JCN: Ricordo che dalla finestra del nostro studio in via Malaga eravamo spettatori di questo gruppo di rom… Inizialmente portarono un fornelletto e qualche mattone per sedersi, ma nel giro di qualche settimana occuparono completamente l’area. Il custode del nostro stabile si alzava all’alba – era incaricato di smaltire gli scarti degli appartamenti che venivano svuotati. Semplicemente li buttava nel canale. Quando si abbassava il livello dell’acqua, in un’unica immagine verticale vedevamo il canale, i rifiuti, i gabbiani di Milano in cerca di cibo e la cittadella rom. Con questo panorama sono nati diversi brani del periodo di Problems.
MP: Forse in quell’occasione è emersa anche la tinta apocalittica del nostro progetto – non tanto da letture specifiche, quindi, ma da una visione quotidiana.
Immagino che la ricerca di un luogo realmente vostro fosse anche determinato dall’appartenenza a delle culture estranee, di minoranza.
MP: Era ed è fondamentale. La percezione di un adolescente colombiano trasferito a Brescia o dell’unico ragazzo omosessuale di un piccolo paese di provincia. Era naturale per noi provare a rivendicare un luogo come nostro.
JCN: “Recall Your Bones”, il brano che apre Crab Suite, rappresenta proprio questa ricerca disperata e viscerale di non dimenticare le proprie ossa. Crescere in una minoranza discriminata mette un velo di consapevolezza a tutto quello che fai. Ti costringe a conservare più punti di vista. In quel periodo naturalmente ha fatto tantissimo aver conosciuto quelli che sono ancora i nostri amici più cari: Simone, Lorenzo [rispettivamente Trabucchi e Senni ndr] e tutti gli altri… Trovare un nucleo di persone con cui potevamo sentirci a casa è stato un grande sollievo.
Però voi siete in due. Immagino sia molto delicato trovare un punto di equilibrio che permetta la sintesi delle vostre esperienze personali in un’espressione comune.
MP: Sì. Considera che l’anno successivo alla pubblicazione di Problems abbiamo iniziato a confrontarci con Warp. Ci interessava far ripartire la nostra ricerca dalla dimensione live, sia a livello pratico che concettuale. Per Crab Suite il punto di incontro è stato un teatro nell’area industriale di Ravenna, fondamentale quanto lo era stata per il nostro debutto la convivenza in via Malaga.
JCN: Potevamo sperimentare attraverso jam session lunghissime, inventando strumentali e voci su un impianto che era acceso ventiquattr’ore su ventiquattro. Ci spostavamo da una stanza adibita a studio di produzione a una sorta di palco.
MP: Che per noi era un’arena: un black box dove poterci scontrare, una possibilità che non avremmo avuto in uno studio di registrazione. È diventata parte integrante del nostro processo di produzione, perché ci permetteva di prepararci all’incontro con il pubblico. Lavoravamo di riduzione, puntando ad avere un’intensità che lasciasse un segno nella memoria.
Una volta che operate di sintesi sui diversi livelli, le canzoni raggiungono una densità molto alta – assumono una gravità propria che ti trattiene, respirano con te.
MP: Anche quando creiamo delle storie, il dialogo tra noi e il pubblico resta istintivo, saturo. Per questo “primitive”: è un’emotività senza codici, filtri o strumenti.
JCN: Nel tempo il nostro nome ha assunto significati diversi anche per noi, accompagnando la nostra esperienza. Ma è sempre il tentativo di abbandonare una connotazione specifica, creando dei metodi nuovi, un alfabeto che possa portare la nostra musica fuori dal tempo.