Andrea Bellini: Caro Federico, iniziamo dalla fine, intendo dalla fine del mondo. Per la piattaforma digitale del Centre d’Art Contemporain di Ginevra ti ho invitato a realizzare una serie di podcast su come prepararsi per la fine del mondo. L’idea di un’apocalisse culturale è centrale nella tua filosofia. Ti andrebbe di spiegarmi brevemente cos’è, per te, la fine del mondo?
Federico Campagna: Partirei dal presupposto che un “mondo”, un cosmo, non è una cosa “naturale”, quanto piuttosto una sorta di storia sulla realtà. Gli esseri umani, come tutte le creature, sono dotati di abilità cognitive limitate. Per vivere, dobbiamo semplificare la valanga di percezioni “crude” che ci investe in ogni momento e trasformarla in una narrazione semplice ma significativa di un “mondo” che siamo in grado di riconoscere e navigare.
Quando parliamo di “mondo”, dunque, non intendiamo una realtà autonoma. Il mondo è un costrutto artificiale dell’immaginazione ed è possibile svolgere in tanti modi differenti questo processo di cosmogonia.
Le diverse specie viventi costruiscono il “mondo” in maniera diversa, e nel corso della storia i gruppi umani che si sono susseguiti hanno creato storie diverse del/sul mondo, vivendo così in mondi effettivamente differenti. Dopo un po’, ogni narrazione cosmologica giunge al termine del proprio ciclo narrativo: il suo futuro si esaurisce e la investe un’apocalisse. Il nostro pianeta ha assistito a molte apocalissi storiche, allo stesso modo in cui ciascuno di noi, in quanto individuo, fa esperienza di svariate “fini del mondo” nel corso della propria vita. Pensiamo al passaggio dall’infanzia all’età adulta: la struttura metafisica del mondo di un bambino è molto diversa da quella di un adulto. Il passaggio da un’età a un’altra, per un individuo, equivale all’apocalisse di una storia del/sul mondo (dove, per esempio, il buio dentro un armadio è dotato di uno status ontologico e una volontà propri) e alla creazione di altri cosmi, in cui la realtà stessa è strutturata e popolata diversamente.
A.B.: Stiamo assistendo a un periodo molto complesso della storia dell’uomo, con lo sviluppo di nuove tecnologie che presto saranno fuori dal nostro controllo, e con trasformazioni sociali importanti, che includono una pandemia che ha messo a dura prova l’economia mondiale e la salute mentale di ognuno di noi. Credi che stiamo vivendo la fine del mondo?
F.C.: Mi sembra che la narrazione del mondo dominante sul nostro pianeta – quella che potremmo definire l’ideologia della Modernità Occidentalizzata – stia raggiungendo il suo apice.
La crescente rigidità delle identità, l’automatizzazione dei processi decisionali, l’accelerazione di qualsiasi forma di estrazione e l’illimitata espansione degli armamenti sono il risultato di una cosmologia in cui i passaporti contano più delle persone reali, i valori finanziari sono più legittimati delle illuminazioni mistiche, e il fatto che una gran parte delle creature viventi del pianeta viva in una gabbia è la normalità.
Il problema è che questa intensificazione sta ponendo le condizioni per il suo stesso contenimento e, in definitiva, per la disintegrazione del mondo contemporaneo così come lo conosciamo. Anno dopo anno, il rischio di un disastro ambientale mondiale diventa sempre più reale e, in assenza di organismi di riconciliazione internazionale, cresce anche il rischio di un grande conflitto globale combattuto con armi altamente distruttive. Qualsiasi evento di questo tipo interromperà le reti di produzione e rifornimento che attualmente sostengono il corpo tecnologico di questa civiltà. Allo stesso tempo, con la caduta delle infrastrutture, la modernità occidentalizzata verrà privata di quegli altoparlanti che quotidianamente instillano il “senso comune” nelle menti e nelle vite dei suoi soggetti.
Il mondo della modernità occidentalizzata perderà sia il proprio corpo sociale che i narratori della sua cosmologia. Possiamo stare che certi che, in seguito, nuove storie del mondo emergeranno dalle ceneri di quello ormai morto, così come è sempre accaduto nel momento in cui una civiltà finisce.
A.B.: Nel 1975 è stato pubblicato, in Italia, La fine del mondo, contributo e analisi delle apocalissi culturali, straordinario libro dell’etnografo Ernesto de Martino, il quale sostiene che ci sia sempre stata una fine del mondo. Fa l’esempio della civiltà Azteca e di quella Maya, che sono state spazzate via dai colonizzatori europei. Per quelle persone, l’arrivo dei “civilizzatori” bianchi ha rappresentato esattamente la fine del mondo – del loro mondo. Vorrei aggiungere che de Martino, già negli anni Sessanta, era uno dei pochi intellettuali ad avere adottato una prospettiva decentralizzata rispetto la cultura occidentale, mettendo in discussione la crisi delle società colonialiste. Quello che abbiamo detto finora, caro Federico, può di fatto essere rintracciato nelle riflessioni che de Martino ha sviluppato nel suo libro, che è stato fondamentale per me e, immagino, anche per te. Ho la sensazione che il tuo libro appena pubblicato, Prophetic Culture, abbia l’ambizione di presentare una sorta di sviluppo del pensiero di de Martino. Mi sembra che il tuo libro si ponga la domanda di come possiamo comunicare con le persone che verranno dopo la fine del mondo. È così?
F.C.: Hai assolutamente ragione riguardo all’importanza di de Martino – è scandaloso quanto poco sia pubblicato nel mondo anglosassone ancora oggi. Il suo libro Il Mondo Magico ha profondamente influenzato le mie idee circa la fragilità della realtà, che ho esposto in Technic and Magic (2018). Nel mio nuovo libro, Prophetic Culture, mi concentro sul problema della responsabilità culturale che abbiamo nei confronti dei posteri.
Siamo giustamente consapevoli della nostra responsabilità ambientale nei confronti delle generazioni future; ma quanto spesso pensiamo a ciò che ne sarà della nostra eredità culturale?
Tutti i nostri archivi digitali scompariranno non appena collasseranno le infrastrutture tecnologiche costruite dalla moderna civiltà occidentale. La maggior parte degli edifici contemporanei, costruiti sotto l’egida del capitalismo, lasciati senza manutenzione cadranno a pezzi rapidamente, fino a diventare tumuli di cemento informi e campi minati da schegge di vetro e metallo. Nemmeno la carta durerà a lungo.
Siamo davvero soddisfatti che l’eredità culturale che lasceremo si ridurrà solo alla cautionary tale della devastazione che abbiamo inflitto all’ambiente naturale?
Ma il problema è ancora più ampio. La vera domanda è: cosa possiamo offrire a coloro che verranno dopo di noi, tale che possa aiutarli a costruire un nuovo mondo dopo il crollo di quello attuale? Dubito che la nostra cultura contemporanea abbia molto da offrire a riguardo; e in ogni caso, ha un linguaggio troppo autoreferenziale per potere essere compreso da individui che vivranno in un “mondo” completamente diverso. Siamo però ancora in tempo per cambiare questa situazione: possiamo ancora decidere di mentire consapevolmente sulla nostra cosmologia, inventando un passato migliore per noi stessi e per i posteri, e cercare modi alternativi per riuscire a trasmettere questa fertile bugia oltre la soglia della prossima apocalisse. Nel mio libro, guardo alla lunga tradizione della “cultura profetica” per disegnare i tratti generali delle eredità culturali di quelle civiltà passate che sono riuscite a superare i confini del mondo e ad aiutare nella creazione di nuovi mondi. Se non mi sbaglio, questo aspetto interessa anche a te. Penso alla tua recente mostra “Scrivere Disegnando” e al tuo lavoro su Chiara Fumai, distruttrice e costruttrice di mondi e viaggiatrice di inter-mondi, entrambi al Centre d’Art Contemporain di Ginevra.
A.B.: È vero. “Scrivere Disegnando: quando la lingua cerca il suo altrove” era una mostra sul lato oscuro della scrittura, che ha ormai abbandonato la sua funzione comunicativa per entrare a far parte della sfera di ciò che è illeggibile e indicibile. È stata anche una mostra su quelle che de Martino chiamava “apocalissi individuali”, la fine del mondo nella sua dimensione psicopatologica. Questo tipo di apocalissi soggettive sono frutto della modernità, della difficoltà dell’individuo di adattarsi alla “nuova narrazione” del mondo moderno. Chiara Fumai ha a che fare con tutto questo perché il suo femminismo punk ha anticipato l’atmosfera attuale; Fumai ha desiderato, poeticamente e politicamente, la fine del mondo patriarcale, cioè del nostro mondo corrente. Nel frattempo, il suo mondo è finito per crollare, ma potremmo pensare che sia venuta ad annunciare il mondo a venire. Nel tuo prossimo libro emerge la figura del profeta come un balbuziente; affermi che il profeta non appartiene mai veramente al suo mondo e non è mai pienamente contemporaneo al suo mondo storico. In qualche modo, il profeta non è mai veramente sé stesso, ma si percepisce come un’entità che va oltre i limiti di un’identità definita, di un senso di appartenenza, di un sé individuale. Sto ancora pensando a Chiara Fumai. Chi è, allora, il profeta? Può essere l’artista?
F.C.: Chiunque può parlare o fare arte in modo profetico, nella misura in cui occupi il posto del profeta. Il termine “profeta” non indica un gruppo limitato di persone e non richiede (anzi, spesso la preclude) una produzione originale. Maometto, per esempio, non è l’autore del Corano, che gli fu rivelato dall’arcangelo Gabriele; Omero non ha inventato l’Iliade, ma ha pregato la Musa affinché gliela cantasse; non è stato Mosè a scrivere i comandamenti, ma Yahweh; non fu Parmenide, ma la Dea a pronunciare il logos del “sentiero del giorno”; la congregazione cristiana non parlò durante la Pentecoste, ma fu “parlata”; e così via… Un profeta non è un autore, ma un luogo cosmologico: è un punto di vista nei confronti della valanga di percezioni che ci investe, ed è un modo per “intonare” il proprio modo di vedere e sentire.
Dal punto di vista profetico, la realtà appare molto diversa rispetto alle metafisiche unidimensionali alle quali siamo oggi abituati. La realtà profetica è un regno multidimensionale, dove soltanto una parte di quello che ci compone e ci circonda rientra nella sfera di ciò che è nominabile e visibile, mentre la maggior parte rimane inafferrabile da qualsiasi forma linguistica, in una eterna ineffabilità.
Dal punto di osservazione del profeta, il “mondo” è un’isola caratterizzata dal linguaggio, attraversata e circondata dalle acque di altre dimensioni, sempre più lontane da esso. All’interno di ogni granello di esistenza, succede molto più di quanto saremo mai in grado di cogliere, non solo con i mezzi del linguaggio e della ragione, ma anche attraverso le nostre emozioni e la nostra immaginazione.
Come ogni cosa esistente, anche ogni consapevolezza nel mondo – che sia nella forma di coscienza umana o in qualsiasi altra forma – è sempre al di sopra di se stessa e, per la maggior parte, supera la propria stessa comprensione.
È una visione dell’eternità circoscritta nel tempo, di ciò che nell’Ebraismo è rappresentato dal giorno di riposo dello Shabbat, la grande “cattedrale nel tempo” in cui la presenza dell’ineffabile è riconosciuta nel suo mistero. Essendo stati testimoni di questa cosmologia, anche solo per un attimo, alcune persone scelgono di conservarla come la “storia possibile” sulla realtà su cui basare la propria vita quotidiana, e dunque di “parlarne” attraverso il proprio lavoro “di fronte” ad altre persone (l’etimologia di profezia, pro + phēnai). Se desidereranno fare ciò, allora queste persone si troveranno a dover reinventare anche il proprio rapporto con il linguaggio. Per riuscire a parlare profeticamente, esprimendo la paradossale “coincidenza degli opposti” che costituisce il cuore dell’esistenza, dovranno strappare il linguaggio e ricomporlo in composizioni grottesche. La loro produzione culturale potrà non essere né bella né divertente, ma il suo racconto sarà indistruttibile davanti alle apocalissi della storia e sarà in grado di parlare a tutti i mondi, perché il mistero di cui parla appartiene anche a ognuno di essi. Questa forma di cultura profetica riuscirà anche a insegnare a coloro che verranno dopo di noi come includere tale mistero all’interno delle loro cosmologie, e come riconoscere la sua presenza in tutto ciò che è esistente.
A.B.: Un profeta dunque non è un autore, ma un luogo cosmologico. Sono sicuro che Chiara Fumai sarebbe stata contenta di questa definizione della sua identità, o mancanza di identità, quale performer.