Comunica uno strano senso di vertigine il legame tra il MAXXI e i suoi edifici. In quello di Zaha Hadid la vertigine investe il corpo dello spettatore lungo la scala interna che autoreferenzialmente celebra l’architettura, e può offrire punti di vista profondi su opere e interventi site-specific. La nuova sede del MAXXI L’Aquila è invece un edificio storico, Palazzo Ardinghelli, collocato nel centro della città, e fa provare al visitatore un senso di vertigine del tutto diverso, che ha che fare con il tempo e con i cicli della storia che paiono riannodarsi attorno a quel luogo: la costruzione del palazzo – declinazione/esempio di un tardo barocco composto ed elegante – fu uno dei cardini della rinascita dopo un altro terribile terremoto che distrusse la città a inizio Settecento, così come oggi, a restauro avvenuto, è uno dei fulcri della città che va restituendosi ai suoi abitanti.
Il punto di equilibrio a cui fa riferimento il titolo della mostra, che più che una mostra è un’ipotesi di racconto multi direzionale e stratificato che si articola attorno ad alcune opere della collezione del MAXXI ricollocate nel nuovo spazio in dialogo con otto interventi, alcuni site-specific, commissionati dal museo (quelli di Elisabetta Benassi, Stefano Cerio, Daniela De Lorenzo, Alberto Garutti, Paolo Pellegrin, Nunzio, Anastasia Potemkina, Ettore Spalletti), è una riflessione sulla necessità e il desiderio di un baricentro in un’epoca di incertezza, e sulla forma (della scultura e dell’installazione) come luogo di incontro e sospensione tra energie contrastanti, o come dimensione instabile e viva che spinge lo spettatore a trovare un proprio di punto di equilibrio attraverso l’esperienza dell’opera.
“Punto di Equilibrio” non è dunque, e non può esserlo viste le ridotte dimensioni del palazzo, un racconto organico, e riproduce – forse un po’ rigidamente – le diverse anime del museo (arte, architettura, fotografia) traducendole in sale che risultano, in alcuni casi, compresse e bulimiche. Voglio dire: in molte stanze si toccano fuggevolmente troppe cose e alcuni lavori storici sembrano risultare accessori quando non proprio limitanti rispetto alla possibilità di altri di espandersi nello spazio: così La città sale (2020) di Elisabetta Benassi sembra un poco assediata dai lavori di Pistoletto, Boetti e Cattelan; la presenza di un Achrome di Manzoni nulla aggiunge al bel dialogo che si instaura, in un’altra stanza, tra il lavoro di Alberto Garutti e quello di Luca Trevisani.
La proposta espositiva è invece molto efficace proprio dove, toccandola, fa risuonare l’architettura (dico apposta risuonare, perché le forme della piccola architettura barocca hanno proprio uno sviluppo musicale) in diversi momenti, concedendo al visitatore la possibilità di un rapporto uno a uno con l’opera nella cornice degli ambienti del palazzo: il lavoro di Nunzio all’ingresso, progressione di legni combusti collocati a soffitto, direziona lo sguardo dello spettatore da un ingresso all’altro al piano terra; Fischio (2018) di Liliana Moro, un’installazione sonora che riproduce nello spazio vuoto il suono di un fischio, accompagna una perlustrazione del palazzo così come si organizza attorno al cortile centrale; la luce rossa di The missing poem is the poem (1969), storica scritta al neon di Maurizio Nannucci, si riverbera in una parte dello scalone interno. I lavori di Paolo Pellegrin (L’Aquila, polittico di immagini prodotte tra il 2018 e il 2020 che mettono in dialogo le ferite della città con una dimensione lirica che appartiene alla montagna che la circonda), Stefano Cerio (una serie di foto che mostrano architetture gonfiabili negli scenari dell’appennino abruzzese come richiamo ad edifici spazzati via dal terremoto) e Anastasia Potemkina (una sorta di monumento a una pianta invasiva, il senecio, scelta come simbolo di resistenza di quei luoghi) invitano a pensare a Palazzo Ardinghelli come un punto di raccordo tra energie contrastanti che provengono dalla città e dal paesaggio circostante, allargando lo sguardo e aprendolo alle sollecitazioni del fuori. La Colonna nel vuoto, L’Aquila (2019) di Ettore Spalletti, infine, vale da sola la visita al MAXXI. Si tratta di una specie di piccola opera testamento che, in un luogo appartato del museo, si pone come fulcro energetico di tutta la mostra: una colonna che, al centro di una cappella a pianta quadrata, si sviluppa in altezza senza toccare la volta, arrestandosi a produrre un vuoto che diventa uno spazio infinito.F