Tutta la mia storia con l’informatica ha avuto a che fare con uno slittamento della nozione di computer come imitazione dell’essere umano, verso un riconoscimento del computer come entità indipendente dotata di capacità proprie, fondamentalmente diverse da quelle che possediamo.
— Harold Cohen, 2011
Ancor prima del suo incontro con un computer alla mostra “Cybernetic Serendipity” all’ICA di Londra nel 1968, la pratica pittorica di Harold Cohen (1928 – 2016) aveva già assomigliava a una codificazione formale, messa in atto nella metà degli anni Sessanta nelle mostre alla Whitechapel Gallery, alla Documenta 3 e alla Biennale di Venezia. Lavori come Before the Event (1963), con la loro particolarità espressiva, crearono un comprensorio tra rappresentazione e astrazione e iniziarono a suggerire la tematica cui AARON, il software implementato da Cohen, tenterà poi di dar risposta: “Quali sono le condizioni minime secondo cui un complesso di segni viene percepito come un’immagine?”.
Nel momento in cui la Tate presentò la mostra “Two Decorative Works by Henri Matisse and Harold Cohen”, l’artista aveva raggiunto una levatura tale per cui la pressione di inventare non solo nuovi dipinti ma anche nuovi “mondi” si fece crescente.
Cohen aveva da sempre prestato attenzione a ciò che Ernst Gombrich denominò “beholder’s share” [il coinvolgimento dell’osservatore], così come a ciò cui lui stesso fece riferimento come “standing for-ness” [lo stare per]: secondo Cohen, i tratti sulla tela evocano significati diversi in ogni osservatore. L’artista contestava quindi con decisione il modernismo scientifico di Clement Greenberg, sia personalmente sia nella pratica. Ciò nonostante, per Cohen, che una volta descrisse il computer come “una macchina multiuso generatrice di simboli”, la prospettiva d’instradare la sua esperienza in delle regole per una macchina in grado di creare arte in modo autonomo, rappresentò un’estensione naturale dell’arco concettuale della sua carriera, così come un rimedio alla perdita di spirito creativo.
Nel corso dei quarant’anni successivi, dopo la sua Wanderjahr del 1971, durante un periodo di relativa trascuratezza dell’arte californiana, Cohen sviluppò la sua “seconda identità”, il software AARON, attraverso una serie di iterazioni scritte nel linguaggio di programmazione Lisp che aveva imparato durante un periodo come studente ospite presso il Laboratorio d’Intelligenza Artificiale della Stanford University. In perenne aggiornamento, AARON è forse il più vecchio programma nella storia dell’informatica ed è, in maniera del tutto unica, capace di illustrarci le differenze tra apprendimento umano e meccanico. Gli stadi dello sviluppo di AARON – da un programma per disegnare, a uno per dipingere, a una piattaforma online per stampa massiva – erano basati non soltanto su un riesame generale da parte di Cohen sul prendere decisioni artistiche, ma anche sull’abilità di ovviare a un problema cruciale: mentre i sistemi cognitivi umani si sviluppano attraverso il ricorso al “mondo reale” esterno, un sistema cognitivo di intelligenza artificiale non ha un mondo esterno cui possa fare riferimento. AARON ha dovuto imparare a vedere nel buio.
Nel ricercare le condizioni necessarie per cui una serie di segni funzionasse come un’immagine – e quindi i requisisti minimi per l’esistenza di AARON come artista – Cohen arrivò ai “primitivi cognitivi” alla base della percezione visiva. Nel corso degli anni Settanta, AARON acquisì queste abilità universali: la capacità di differenziare figura e sfondo, forme aperte e chiuse, così come la capacità di creare uno schizzo sulla base di quanto disegnato in precedenza. Quest’approccio umano al disegno in modalità feedback, per cui le linee e le forme individuali sono determinate e misurate in relazione a una composizione generale, fu fondante nella concezione della concinnitas da parte di Alberti nel primo Rinascimento.
Tuttavia, per far sì che il programma replicasse questo tipo di approccio, Cohen dovette impedire a AARON di disegnare linee che si sovrapponessero ad altre forme chiuse. La prospettiva doveva ancora attendere.
I disegni a muro realizzati per il San Francisco Museum of Modern Art nel 1979 rivelarono la strategia evasiva di AARON nel loro caotico bilanciamento di forme aperte e chiuse, tondeggianti e angolari, così come di spazio carico di pieni e di vuoti.
Collegato a un robot disegnatore dal nome The Turtle [La tartaruga], i visitatori osservano i movimenti della mente di AARON come se stesse abbozzando composizioni improvvise sul pavimento museale.
In questa fase, Cohen stava ancora colorando a mano i disegni del suo assistente ma quando The Turtle si è poi evoluto in un robot-pittore vero e proprio, l’artista osservò quanto segue:
A giudicare dal tempo che le persone passano a guardare la macchina dipingere, è evidente che la trovano affascinante. Ma sono andati fuori di testa quando hanno visto la macchina lavare delle tazze, come se il lavoro domestico fosse l’aspetto più coinvolgente dell’arte.
Per Cohen, l’arte era diventata un problema epistemologico più che espressivo, un’attività confusionaria, e i robot rappresentavano infine una distrazione. Ma giunti gli anni Ottanta, AARON stava ancora brancolando nel buio. Per passare dalla semplice evocazione a una rappresentazione vera e propria, e per il fare il salto dalla piattezza all’illusione di uno spazio tridimensionale, Cohen si affidò all’analogia con il primo sviluppo infantile. Come richiamato nel magistrale lavoro di Pamela McCorduck Aaron’s Code (W.H. Freeman & Company, Londra 1991), Cohen osservò che il processo grafico-evolutivo dei bambini che imparano a disegnare scarabocchiando è sempre seguito da un tentativo di circoscrivere quello scarabocchio e quindi di rappresentare qualcosa all’interno del proprio mondo. Inserendo quest’impersonificazione nel programma, insieme alla capacità di rappresentare forme sovrapposte e relazioni spaziali, AARON divenne in grado di produrre lavori come Adam and Eve (1986) che flirtavano fortemente con la figurazione.
Grazie a questo progresso, Cohen eliminò poi lo scarabocchio iniziale in modo da rivelare le forme esterne senza la struttura interna. Capace di omettere parte di ciò che aveva in mente, AARON era in grado di costruire una varietà convincente e potenzialmente infinita di un piccolo numero di forme: pietre, piante, figure umane e quadrupedi per i quali aveva uno schema morfologico.
Nel generare strutture altamente complesse da comandi semplici, Cohen realizzò nel mondo dell’informatica quello che era stato il contributo di Alan Turing al campo della biologia, pubblicato nel 1952 – la sua teoria della morfogenetica, per cui cellule identiche sono in grado di differenziarsi in organismi con braccia, gambe, una testa ecc.
Nei “ritratti” di AARON dei primi anni Novanta, un gruppo di simil-umani creati ex novo – molti dei quali ricordavano a Cohen persone che conosceva –, si può osservare la procedura cognitiva dell’algoritmo nella sua forse più chiara rappresentazione. Lavori come Two Friends with Potted Plant (1991) e Aaron, with Decorative Panel (1992), rivelano nei loro scorci sgraziati e strane anatomie dilatate, il problema del sapere che viene ereditato ma non testato in modo empirico. Certamente, nella loro evidente bidimensionalità, erano quadri perfettamente moderni, ma i problemi di rappresentazione sembrarono determinare l’ultima evoluzione di AARON in un colorista; Cohen non aveva certo intenzione di produrre un ulteriore software per creare corpi solidi. Capace di “fare considerazioni sul colore senza vedere il colore”, l’immaginazione a colori di AARON gli diede un vantaggio sul suo collaboratore umano, tant’è che Cohen non fu mai in grado di replicare la combinazione di valori usati per fare l’unico “dipinto nero” di AARON.
Verso la fine della sua vita, Harold Cohen parlando di se stesso riferì che lavorava “quasi completamente nell’ambito del software”. Avendo costruito l’equivalente di uno spartito musicale con infinite variazioni, l’assistente di AARON aveva invertito la tendenza storica dell’artista alla mistificazione personale, così come l’assunto che l’arte debba essere costosa (Cohen vendeva spesso i disegni di AARON in galleria per 25 dollari l’uno e con la sua presenza in rete divenne il primo software della storia a fornire lavori d’arte originali su richiesta). AARON contestò anche in maniera considerevole il contratto non scritto che imponeva l’evidenza dell’intenzionalità umana nell’arte, con Cohen che collezionava riscontri dei visitatori in galleria per cui era sufficiente per AARON mostrare la sua “personalità” – i suoi lavori avevano una firma particolare che implicava l’intenzione – per concedergli di esistere come artista autonomo. Fosse stato sottoposto al test di Turing, con cui l’intelligenza della macchina è misurata per la sua capacità nella comunicazione umana, l’arte di AARON sarebbe stata il lavoro di un genio. L’era dell’intelligenza artificiale potrebbe far presagire un futuro distopico, ma AARON dipinge un quadro di una seconda versione di noi a colori.