Nicola Nunziata: Hai vinto residenze in diverse città, dal Giappone a New York. Il tuo lavoro si nutre di osservazioni sul campo, alludendo a una matrice documentaria. Walker Evans ha detto: “L’arte non è mai un documento, ma può adottarne lo stile”. Cosa ne pensi?
Raffaella Crispino: Manipolare un materiale originale permette di esercitare una tensione di realismo. Ogni volta che lavoro a un video riprendo situazioni reali e persone comuni, non dirigo mai degli attori. Nel video Suburbia ho chiesto a circa trenta giapponesi di fare una serie di azioni che avevo precedentemente programmato, eppure la loro estraneità all’atto performativo e al mezzo di registrazione regalano un’onestà che è pura tensione. Come le persone, anche le cose hanno la capacità di trasmettere questa tensione. Oltre all’interpretazione dell’opera, si apre un altro livello di lettura: la presenza dell’artista e la sua relazione con l’ambiente. Per In God We Trust ho coinvolto undici congregazioni religiose di New York che hanno accettato di far parte dello stesso progetto con altri cori religiosi. È un lavoro molto intimo, girato negli interni di piccole e grandi chiese, sinagoghe, sale private e altri luoghi nei quali gruppi di persone cantano pregando.
NN: Questa tensione di realismo riflette in modi sempre diversi sulla situazione politica, sociale ed economica di un luogo: l’artista opera sul campo, poi ritorna in studio per un complesso e articolato lavoro di rielaborazione. Cosa succede in questo passaggio?
RC: Questo è il momento in cui l’esperienza personale si apre a qualcos’altro. Abbandonando un compiaciuto manierismo, prendo distanza per riattualizzare il materiale che ho raccolto. C’è sempre un’idea istintiva che spinge in qualche direzione, ma poi subentra un processo di creazione e distruzione delle immagini, delle associazioni e delle idee che voglio centrare senza mai toccare, come se questa inafferrabilità fosse più autentica della realtà. Parlo di un’atmosfera di mistero che implica, paradossalmente, un completo controllo del materiale che sto manipolando. Sul campo sono aperta alle evoluzioni e agli imprevisti, in post-produzione, invece, non lascio niente al caso e la dimensione sonora diventa un elemento concettuale del progetto. Il video Untitled (Israël) inizia con le registrazioni originali della radio libera The Voice of Peace che negli anni Settanta trasmetteva da una barca al largo di Tel Aviv. Mi sono servita di questa propaganda di pace sulle immagini di un paese ricco di contraddizioni. Dopo un breve incipit, il suono cambia e l’allegro jingle della radio, uno degli elementi più riconoscibili e nostalgici, si trasforma in un suono cupo e angosciante che stride sulle ombre contrastate di giovani uomini che fanno ginnastica sulle spiagge di Tel Aviv, sui turisti di Gerusalemme e sui lavoratori palestinesi ai check point.
NN: Spesso i tuoi lavori video sono completati da una serie di disegni. Che cosa rappresenta il disegno nella tua ricerca?
RC: Disegnare è pensare. Credo rappresenti la parte più autobiografica del mio lavoro: idee, atmosfere, qualcosa di intimo che si manifesta con la manualità. Il disegno si inserisce nella mia ricerca in complementarità con tutti i mezzi che uso, non solo con i video. Per l’installazione Strategy Tables, per esempio, il disegno mantiene una sua autonomia: usando lo stile delle mappe da guerra che ho visto a Saigon e Phnom Penh, ho disegnato su alcune mappe fisiche del Vietnam e della Cambogia l’itinerario turistico della Lonely Planet per i paesi del Sud-Est asiatico.