Rashid Rana è uno degli artisti pakistani più noti all’estero. Il Pakistan è un paese nominato quasi esclusivamente per gli attentati terroristici o per le violazioni dei diritti umani, poco si parla invece della vivace scena culturale e di come, attraverso l’arte, il Paese sia riuscito a rimanere collegato con il resto del mondo, anche durante le due guerre contro l’India, gli anni bui della dittatura militare e l’arrivo dei rifugiati dall’Afghanistan.
Rana ha studiato al National College of Art di Lahore e al Massachusetts College of Art di Boston prima di tornare in Pakistan, dove oggi vive e lavora. Dal 2002 dirige la Scuola di Arti Visive della Beaconhouse National University di Lahore, che ha collaborato a fondare.
Le sue opere, bi o tri-dimensionali, sono dei mosaici digitali, in cui ogni tassello contiene una storia indipendente, che entra però a far parte di un altro racconto più ampio, spesso totalmente diverso o addirittura opposto. Le sue opere attraenti nella forma e dirette nei contenuti, sono per lui una sorta di “cavallo di Troia” per veicolare ulteriori messaggi, altrettanto forti ma ancora più universali.
Lavinia Filippi: Hai studiato e iniziato a lavorare con la pittura, come sei arrivato alle nuove tecnologie?
Rashid Rana: Non è successo all’improvviso, il passaggio dalla pittura a quello che faccio ora è stato ponderato. Nei miei primi lavori utilizzavo le tecniche pittoriche tradizionali, e volevo apparissero astratti o comunque il più semplici possibile, anche se in realtà erano concettuali e scaturivano da fonti molto più tangibili come i codici a barre. Ho, poi, iniziato a utilizzare riferimenti alla cultura popolare, scannerizzando le immagini e usando il computer per realizzare i bozzetti preparatori delle tele, che dipingevo successivamente con un team di assistenti. Solo allora mi sono chiesto che bisogno c’era di coinvolgere la pittura: i riferimenti fotografici erano già l’opera in sé.
LF: Che importanza ha la scena contemporanea pakistana per il tuo lavoro, influenzato sia dalle tele astratte di Zahoor ul Akhlaq, sia dai principali movimenti degli anni Novanta — “Neo-Miniature”, che recupera la tecnica delle miniature moghul e “Karachi Pop”, che si rifà alla Pop Art americana in chiave local?
RR: Non sono un tradizionalista, cerco di fuggire dalle regole prestabilite. Ma allo stesso tempo mi affascina capire il passato. Mi piace come i lavori di Zahoor ul Akhlaq si innestano tra presente e passato, cerco di capire come gli altri prima di me hanno contribuito a sviluppare un linguaggio visivo in questa parte del mondo. Negli anni Novanta a Lahore la neo-miniatura era molto popolare, era quasi un riconoscimento, una legittimazione di essere un artista di un certo luogo, di una certa cultura. Io invece non volevo essere catalogato. Sono stato piuttosto influenzato dal nuovo concettualismo americano degli anni Novanta. Anche la “Karachi Pop” è parte del mio background, in qualche modo. Quando sono tornato da Boston volevo allargare il mio pubblico, ampliando le fonti, portando nelle mie opere la nostra cultura popolare. Mi affascinavano le cose che vedevo nei libri di storia o per strada, come per esempio le bancarelle di Lahore cariche di poster degli impressionisti, della Monna Lisa, degli attori americani e dei film di Bollywood. Sono veri e propri “musei” locali.
LF: Che rapporto hai con l’arte astratta che nel tuo lavoro torna nella forma, attraverso l’utilizzo della “griglia” oltre che nell’effetto d’insieme di alcune opere come The World is not Enough o Language Series ma anche nel concetto?
RR: Ho studiato la storia dell’arte e la considero una conoscenza collettiva e condivisa. Non mi piacciono le linee di confine, ma non posso neanche pretendere che tutto sia universale e che non esistano frontiere. Ho un mio contesto, non parlerei di radici culturali, ma piuttosto della circostanza in cui vivo, in cui esisto. Il mio lavoro è un compromesso tra due realtà parallele, una più fisica, fatta di tutto quello che mi circonda concretamente, e un’altra virtuale, basata su qualsiasi notizia di un altro luogo o di un altro tempo…
Adorerei poter vivere altrove e essere libero da tutte queste informazioni per godermi una sorta di pura austerità, ma questo non è possibile. L’arte astratta, come molte altre fonti d’ispirazione, entra a far parte del mio lavoro di tanto in tanto.
Non faccio opere astratte, ma piuttosto gioco con un’idea dell’astratto.
LF: Nella serie “Red Carpet”, dietro l’immagine di un “innocuo” tappeto orientale, si nascondono migliaia di fotografie scattate nel mattatoio di Lahore. Perché sangue e violenza tornano spesso nelle tue opere?
RR: Quando ho realizzato il primo tappeto non pensavo potesse avere il successo che ha avuto. La reazione del pubblico mi ha fatto riflettere sulla forte attrazione che gli esseri umani hanno per sesso e violenza, ma anche su come i media, e l’arte, sfruttano questo comportamento. Per questo non sono andato avanti con la serie dei tappeti. Ricordo il giorno che andai a scattare le fotografie nel mattatoio, ero preoccupato di non riuscire a sopportare quell’atroce spettacolo e quell’odore.
Era lo stesso giorno in cui Benazir Bhutto, dopo molti anni di esilio, tornava in Pakistan acclamata da un’immensa e gioiosa folla. La sera, quando tornai a casa sconvolto dall’esperienza del macello, il telegiornale mostrava le immagini dell’appena avvenuto attentato alla Bhutto. La strada era piena di sangue, erano morte tante persone. In quel momento pensai che le immagini del mattatoio erano ovunque.
LF: Come è stata la tua esperienza negli Stati Uniti e perché hai deciso di tornare in Pakistan?
RR: L’America è stata una buona esperienza di vita, difficile da un punto di vista economico, ho dovuto fare ogni tipo di lavoro per sopravvivere. Ho lavorato da McDonald’s, ho guidato un taxi. Ho imparato molto di più sulla cultura americana facendo l’autista che all’università. Non è stata una decisione facile tornare. Sarei potuto andare a New York, ma allo stesso tempo pensavo che avrei fatto fatica a spiegare il mio contesto, fondamentale per la lettura delle mie opere. A quei tempi il pubblico era meno interessato a capire i lavori che provenivano da altre parti del mondo. Per esempio, viene naturale capire Andy Warhol perché la cultura americana è stata trasmessa ovunque. Ma come avrei potuto spiegare al pubblico il contesto pakistano? Temevo di diventare un emigrante amareggiato e che la mia vita sarebbe cambiata completamente. Non volevo che il mio lavoro fosse incastrato in questa trappola, volevo avere la libertà di sviluppare altri temi.
LF: La tragedia dell’11 settembre ha contribuito a sviluppare un certo interesse internazionale per questa parte del mondo. Che ruolo ha giocato questo evento per lo sviluppo dell’arte in Pakistan?
RR: L’11 settembre, in modi diversi, ha colpito tutti. L’aereo che si schianta nelle Torri Gemelle fa parte della nostra memoria collettiva più di qualunque altra immagine. Tuttavia, per quanto riguarda la visibilità che da allora ha potuto avere l’arte pakistana a livello internazionale, non darei tutto il merito all’attacco dell’11 settembre. Il mondo è diventato più sensibile in generale, più curioso di sapere cosa passa per la testa di questa gente, degli altri. Forse l’11 settembre ha contribuito a stimolare questo interesse, ma in ogni modo il mondo è diventato “meno americano” e più multipolare.
LF: Come sono nati i due video Meeting Points e Departure Lounge che rievocano inevitabilmente l’attentato dell’11 settembre?
RR: Non mi considero un artista politico, ma sono interessato alle questioni sociali. La scelta di riferimenti ovvi come un aereo mi fornisce una fonte di ispirazione. Viviamo in un tempo in cui siamo tutti informati su certe questioni, e queste diventano degli stimoli che utilizzo nei miei lavori. Meeting Point è un lavoro sul dualismo, sullo sdoppiamento. Ho usato una foto di un velivolo e grazie agli effetti ottenuti con la grafica, e all’audio, si ha l’impressione che due aerei identici volino verso la stessa meta. Per una frazione di secondo pensi che gli aerei stanno per scontrarsi, che qualcosa di disastroso possa accadere ma poi ti rendi conto che non è possibile. Departure Lounge è un estensione di Meeting Point che ho realizzato per la Biennale di Singapore, forse il lavoro più ambizioso che io abbia mai fatto. È un’installazione con sei schermi costruita intorno all’architettura di un enorme salone di epoca coloniale. Ho mantenuto l’idea dell’aereo e oltre al rumore ho fatto in modo che la temperatura della stanza fosse mantenuta molto bassa per dare l’impressione del volo. Qui l’aereo gira intorno alla stanza, sempre nella stessa direzione e ti fa sentire intrappolato nel tempo, nello schema ciclico della storia.
LF: Raccontaci il tuo processo creativo.
RR: È molto laborioso e si è sviluppato gradualmente. Per i miei lavori degli anni Novanta ho raccolto molte immagini da fonti diverse e questo mi ha portato a capire che viviamo davvero nell’era delle immagini. Mi ha anche aiutato a definire il mio ruolo di creatore di immagini, che non è per forza quello di produrne di nuove. Ne esistono già a milioni, nessuna inutile e si possono trovare vari significati per ognuna. Quindi, ho pensato che il mio ruolo potesse essere quello di un editor di immagini, che le riorganizza e le usa in diversi modi cambiandogli significato.
LF: Come vengono accolte in Pakistan le opere che parlano di questioni sociali, come la serie “Veil”, in cui l’immagine di donne coperte dal burka è composta da tante piccole fotografie pornografiche?
RR: In generale ho notato che la gente che non è del mondo dell’arte reagisce molto bene al mio lavoro. Ho esposto spesso in Pakistan ma solo in luoghi con un’audience selezionata. Chi va a vedere le mostre di arte contemporanea in Pakistan è un pubblico molto simile a quella che va a vedere le mostre nel resto del mondo. Ho, comunque, preferito evitare di esporre la serie dei veli in Pakistan, perché non vorrei farne un caso mediatico che sicuramente farebbe scandalo.