“Se oggi, mentre noi possediamo forse mille macchine diverse, possiamo distinguere mille rumori diversi, domani, col moltiplicarsi di nuove macchine, potremo distinguere dieci, venti o trentamila rumori diversi, da non imitare semplicemente, ma da combinare secondo la nostra fantasia”.
—Luigi Russolo, L’Arte dei Rumori, 1913
Ogni volta che si discute di tracce sinestetiche, in cui suono e immagine si incontrano, si torna sempre a parlare del profetico movimento del Futurismo, riportando la memoria al primo decennio del Novecento, quando ancora tutto ciò che abbiamo visto, ascoltato e pensato stava per succedere. Lasciamo stare il Futurismo (ma non smettiamo mai di riconoscergli il merito della comprensione della contemporaneità culturale) e facciamo finta di avere già parlato di Dresda (Stockhausen, Nono, ecc.), Morton Feldman e John Cage, Fluxus, i primi sintetizzatori e il loro successivo utilizzo, l’elettronica digitale. La libertà di mezzi, linguaggi e contenuti che possiamo permetterci attualmente non è apparsa improvvisamente e casualmente; la nuova classe creativa è parte di un’infinita rete di collegamenti culturali che dalle Avanguardie Storiche di inizio Novecento, poi da quelle degli anni Cinquanta e Sessanta, approda alla nostra contemporaneità. Partendo da queste premesse fondamentali, Riccardo Benassi è parte vitale di una fervida realtà internazionale che opera al limite dell’immagine e del suono, mischiando i generi e forzando i limiti degli stessi. E se non sono margini fisici possono essere confini mentali o percettivi nei quali la precisa collocazione spazio-temporale ha un’importanza strutturale. Quasi un’arte “a parte” che prende un po’ da tutte le altre, forte di una maturità culturale in grado di modificare i nostri stessi sensi e un po’ compiaciuta di rimanere nei pressi del sistema artistico classico ma con le radici aggrappate alle espressioni più innovative. Che differenza c’è se invece che il colore pittorico, la superficie fotografica o il supporto video, Riccardo Benassi usa il suono come materia? Nessuna, verrebbe da dire, partendo dal presupposto che tutti questi media sono solo i tramiti di un’intenzione artistica in grado di saltare da un supporto a un altro. Il lavoro di Benassi è la diretta conseguenza di un percorso, giovane quanto maturo, di un mixed media artist armato solo di una riflessione acuta su ciò che ci circonda, e i complessi installativi (fatti di registratori, giradischi, casse audio, e molti, molti fili intesi come “vene” portanti di un lavoro in fieri organico e vitale) attestano un’intricata abilità nell’assemblare, mischiare o sovvertire i codici interni del suono “visivo” che proviene da una conoscenza e un confronto con gli strumenti prescelti. Negli anni Cinquanta Morton Feldman affermava che: “Ora che le cose sono tanto semplici, c’è tanto da fare”. Dal momento che il suono si è fatto “espanso”, le traduzioni artistiche si sono moltiplicate e differenziate e la velocità informativa, visiva e uditiva annuncia un rallentamento, una sorta di opposizione alle logiche immersive nel mezzo. Riccardo Benassi conosce bene i suoi “strumenti” e dopo esserne stato sedotto tenta di abbandonarli intervenendo nei meccanismi per poter pensare, memorizzare e sviluppare percorsi propri. Se di immersione, così come scrive David Toop in Oceano di suono (1995), possiamo ancora parlare, lo dobbiamo fare nei termini dello spazio che contiene i mezzi e non dello spazio interno al medium stesso.