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2 Settembre 2015, 11:35 am CET

Riccardo Beretta di Francesco Garutti

di Francesco Garutti 2 Settembre 2015
Birba, 2009-2011. Clavicembalo; intarsio ligneo con piallacci naturali tinti, madreperla haliotis, frassino giapponese, ottone, 90 x 215 x 90 cm. Foto: Vincenzo Caccia. Collezione Privata, Bergamo.
Birba, 2009-2011. Clavicembalo; intarsio ligneo con piallacci naturali tinti, madreperla haliotis, frassino giapponese, ottone, 90 x 215 x 90 cm. Foto: Vincenzo Caccia. Collezione Privata, Bergamo.

Quale percezione del Tempo abbiamo nel Museo? Questione complessa, da studiosi di museologia, antropologi affascinati dalla storia dell’uomo raccontata attraverso le opere d’arte, ricercatori e architetti intenti a ispezionare la vita e il funzionamento di un’istituzione. Difficile provare a misurare la quantità di tempo che è contenuta nella Mostra.

Sostare di fronte a un’opera, osservarla, annusarla e gustarla corrisponde a una quantità di attimi tanto precisa quanto indefinita.
Nel Museo il corso della Storia è scandito per punti; momenti esatti nei quali opere e oggetti sono stati realizzati.
Nel Museo il racconto del futuro è dispiegato per immagini; ogni lavoro traguarda l’orizzonte presente e prefigura il mondo che verrà.

Ogni nostra camminata tra le sale del Museo — ora e adesso — disegna un’ulteriore linea nella complessa mappa del tempo della Mostra, perché arricchisce la raccolta degli oggetti del nostro sguardo da visitatore/esploratore: ecco il presente continuo del Museo.
Il tempo delle opere di Riccardo Beretta è un tempo lungo. La produzione di un lavoro è spesso un processo artigianale per definizione non breve, ma allo stesso modo lo spazio della mostra è per fisiologia un luogo di lenta perlustrazione.
A Berlino presso TÄT una concertista si siede al clavicembalo (Birba, 2009-2011), ne apre il coperchio e su indicazione dell’artista suona per pochi minuti. Improvvisa, riempie lo spazio della galleria di musica per qualche istante. Lo strumento rimane aperto, poi richiuso. Alcuni visitatori restano nella sala accanto a leggere un testo ricamato su tessuto (Blanket, 2011). Lo spazio si anima in modo naturale, testo e suono si scambiano i ruoli.

Blanket, 2011. Ricamo su velluto cotone, 200 x 123 cm. Veduta dell’installazione per la mostra Birba, presso TÄT, Berlino. Courtesy dell’artista. Foto: Gabriel Rossell Santillán. Collezione Privata, Milano.
Blanket, 2011. Ricamo su velluto cotone, 200 x 123 cm. Veduta dell’installazione per la mostra Birba, presso TÄT, Berlino. Courtesy dell’artista. Foto: Gabriel Rossell Santillán. Collezione Privata, Milano.

Il clavicembalo è disegnato e progettato dall’artista. Tassello contemporaneo di una tradizione antica, l’oggetto contiene una mappa di essenze, sfumature, colori, materiali e geografie del mondo. La tastiera è africana — ebano e legno zebra — mentre i fianchi della cassa armonica mescolano cromie naturali e tintura. Il legno, cresciuto su un terreno inquinato lungo il corso del Reno, si è trasformato, naturalmente azzurrato ha assunto sfumature cangianti. L’interno del coperchio è bianco, due lastre impiallacciate a libro, tagliano simmetricamente la superficie; ogni tasto è differente per il suono che produce, ora anche per figura e disegno. Gli intarsi, i tagli e i ricami vegetali di Beretta esplorano, studiano e raccontano con parole nuove gli incastri, le tecniche della pratica artigianale. Quella tradizione artigianale che da Bugatti a Fornasetti fino a Ettore Sottsass ha costituito la spina dorsale della storia del design italiano. Ma non si tratta di semplice citazione di un paesaggio materiale e della sua geografia dal dopoguerra a oggi.
Il lavoro di Beretta sul design degli oggetti, il decoro e le loro componenti fisiche e naturali è un’attenta pratica di studio, ridisegno e trasformazione. Come narrazione lenta e senza tempo, il procedimento artigianale nell’opera dell’artista italiano — storia di cose, tecniche e persone — non è altro che un tentativo di provare a ragionare su noi stessi a partire dalle procedure del fare. Il lavoro di Beretta ha un sapore etnografico, senza la pretesa di produrre una teoria o una sintesi. È acceso dal desiderio di esplorare, ritoccare e trattare il linguaggio degli oggetti e la storia della loro produzione come pratica conoscitiva. In questo senso è necessario citare Portoro (2010). Impiallacciatura e intarsio, tinteggiatura e colore per ricostruire con le tecniche del legno una pregiatissima lastra di marmo nero di Portovenere, allestita semplicemente appoggiandola a un tronco d’albero, le magnolie secolari di Villa Necchi a Milano2. L’opera consiste nel processo di ricostruzione di un materiale, o meglio di una lastra di esso attraverso tecniche artigianali proprie della lavorazione del legno. È lo studio delle venature del marmo a partire paradossalmente da un’essenza vegetale. Ridisegnare la forma di una vena naturale in modo artificiale è in verità un modo per comporre paesaggi mai visti e per perdersi nelle nicchie di una cultura materiale ancora inesplorata e infinitamente ricca di senso.
La relazione tra le cose, i dettagli, la pratica del fare ed il racconto, la narrazione contenuta nella tecnica o nell’ornamento, guidano Beretta a intrecciare il problema dell’artigianalità a quello della lingua e della parola.
È del 2006 Sentieri nel ghiaccio, un taccuino Moleskine in cui l’artista riscrive a mano il diario di un lungo viaggio a piedi attraverso l’Europa del regista Werner Herzog. L’operazione di lettura e scrittura diviene tessitura per raccontare l’attrito del viaggio, la fatica del procedere attraverso i paesaggi che mutano e si trasformano con lentezza. La lingua stessa per forma e figura è materiale di lavoro.

Portoro, 2010. Intarsio ligneo su compensato marino, 300 x 53 x 3,5 cm. Veduta dell’installazione per la mostra Low Déco presso Villa Necchi Campiglio, Milano 2010. Foto: Jacopo Menzani
Portoro, 2010. Intarsio ligneo su compensato marino, 300 x 53 x 3,5 cm. Veduta dell’installazione per la mostra Low Déco presso Villa Necchi Campiglio, Milano 2010. Foto: Jacopo Menzani

Il giovane artista italiano ha già composto un corpo di opere organico che tocca alcune questioni di grande urgenza. Ecco che Blanket, 2011 è ricamo, racconto cucito sul tessuto pesante di una coperta scura. Il breve testo Di notte di Franz Kafka è il decoro di un mantello, drappo di stoffa di cotone e velluto per coprire il corpo, forse. L’opera, progettata e realizzata in diverse lingue, non è carica della celebrativa potenza di un arazzo, al contrario sembra citare l’origine prima dell’esercizio del ricamo: il tatuaggio, il decoro sulla pelle. Ecco ancora l’uomo. L’uomo antico che usa materiali primari e più che mai fisici, carne e colore, per presentarsi nella società dei propri simili. È un oggetto dal sapore tanto domestico quanto arcaico. Di notte è un disegno composto da ogni carattere che compone il testo.
L’artista realizza e produce nel 2009 Fontaine, un font digitabile a tastiera, le cui forme e proporzioni déco generano nel testo intrecci e sovrapposizioni di lettere e lunghe aste curve e linee rette che rendono complesso e profondo lo spazio del racconto. (Lo studio rigoroso dell’arte tipografica rivela ancora la passione di Riccardo per l’artigianato e allo stesso modo per l’analisi di discipline tecniche ordinate da regolamenti e tradizioni).
La tastiera del clavicembalo e la disposizione ordinata dei tasti per la scrittura sembrano sintetizzare alcuni temi costanti dell’opera di Beretta: ecco di nuovo l’intenzione di ragionare sulla relazione tra linguaggio e pensiero, disegno, suono e scrittura. Non a caso il clavicembalo dell’artista è impiallacciato in modo speculare, come le due mani che lo suoneranno, come i due emisferi del cervello umano.

L’aura di misteriosa sacralità che spesso caratterizza il Mestiere, suggerisce Richard Sennett, sembra caricare le immagini dell’ultimo lavoro di Beretta. Un set di fotografie: dettagli, pezzi e frammenti di materiali, toccati e trasformati dalle mani di un uomo e di una donna. Immagini della lavorazione del clavicembalo sovraesposte, bruciate, quasi allucinate, scattate tra il 2009 e il 2011. In modo inatteso l’artista muove al centro della scena l’homo artifex e il suo fare. Stralunate e sfuocate, le mani sono il motore di ogni processo. La costruzione dell’oggetto è una pratica narrativa che si completa e arricchisce come procedura aperta — l’abilità e l’ambiguità del fare come modello di evoluzione open-source — ed è metafora di una nuova fresca e interessante struttura del pensare contemporaneo, da Wikipedia al word-of-mouth come sistematica risorsa per il nostro marketing e le sue strategie di evoluzione. Le opere del giovane artista sembrano invitare lo spettatore a ricomporre gli infiniti frammenti del nostro tempo, cambiare scala e pensare a una nuova geografia del fare tra localismo e nuovo esotismo. Inusuali per atmosfera e contenuti nel panorama della giovane produzione italiana, le immagini di Riccardo Beretta ci restituiscono un’arte che tocca finalmente alcune cruciali questioni del nostro mondo come il lavoro e il suo paesaggio, il linguaggio e la sua forma, gli oggetti e la loro distribuzione.

Francesco Garutti è critico d’arte e architettura. Vive e lavora a Milano.

Riccardo Beretta è nato a Mariano Comense (CO) nel 1982. Vive e lavora in Italia e Germania.

Note
1. TÄT è uno spazio indipendente per l’arte contemporanea di Berlino, Schönhauser Allee 161A, Berlin 10435, t@tät.net.
2. Villa Necchi Campiglio, Milano. “Low Déco” a cura di Alessandro Rabottini. Gemini Muse, Maggio 2010.
3. Richard Sennet, L’uomo artigiano, 2008, La Feltrinelli.

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