Jens Hoffmann: Ogni volta che leggo il tuo nome su una rivista d’arte è accompagnato dall’aggettivo “leggendario”.
Harald Szeemann: Per molto tempo mi sono rifiutato di accettare definizioni di questo tipo. Molti dicono che sono anche un artista, nonostante abbia sempre cercato di affermare il contrario. I confini della mia professione sono meno chiari: a volte mi capita di essere artisticamente più coinvolto con una mostra, altre sono più al servizio degli artisti e cerco di presentare il loro lavoro nel miglior modo possibile.
JH: Sei stato il primo esempio di curatore indipendente. Dalla fine degli anni Novanta i curatori sono diventati importanti quanto gli artisti. Una volta hai detto che quando hai iniziato il curatore veniva citato solo alla fine del catalogo. Oggi il suo nome è in copertina.
HS: Io continuo a fare come ho sempre fatto: il mio nome appare nel colophon o insieme alle note, mai in copertina. Non lo metterei neanche sugli inviti. Ho discusso spesso di questo con mia moglie, che è un’artista e che sostiene sia importante sapere chi ha organizzato la mostra. Lo capisco, ma non è il mio modo di lavorare.
JH: Pensi che questa Nouvelle Vogue curatoriale abbia anche a che vedere col fatto che l’espressione artistica dei curatori ha acquisito col tempo importanza? Una volta hai detto che una mostra è un mezzo d’espressione…
HS: Penso che c’entri. Eppure ci sono curatori che mi dicono con estremo orgoglio di aver lavorato a delle mostre senza fare un solo viaggio. Forse sono più coinvolti sul piano concettuale, però secondo me perdono una dimensione fondamentale del lavoro, che è il contatto diretto con gli artisti. La mostra in quanto mezzo d’espressione può venir fuori solo da questo. Dico sempre che fare una mostra è come fare una meditazione: il lavoro deve respirare, e anche l’artista. Forse sono solo un utopista, un personaggio di stampo sessantottino che crede che ogni mostra debba esprimere il desiderio di una società nuova, di un cambiamento. Quando metti lavori molto diversi tra loro nello stesso spazio è importante cercare di conservare le distanze e le differenze fra ogni pezzo. Ognuno deve avere il suo spazio, però è necessaria una convivenza armoniosa in modo da formare quell’uniformità che propone qualcosa di nuovo.
JH: Quindi armonizzare le differenze è uno degli obiettivi principali del curatore. Cosa ne pensi dei giovani curatori che lavorano su mostre interdisciplinari, mischiando architettura e arte, danza e video, moda e pittura, ecc.?
HS: Sono molto interessato al lavoro dei colleghi più giovani sull’interdisciplinarietà. Penso sia importante spingersi ai limiti delle cose ma bisogna anche stare attenti al modo in cui si uniscono campi creativi così diversi. Serve una visione globale e una buona ragione per farlo. Mi stupisco sempre quando sento dire che l’interdisciplinarietà è una cosa nuova. Si è lavorato spesso in questo modo nel passato, e anche più recentemente negli anni Sessanta e Settanta. Quando lavoravamo su tematiche di questo tipo alla Kunsthalle di Berna si riconduceva il tutto all’aprire il museo alla gente e a trasformarlo in un luogo di sperimentazione. Di solito ho un rapporto migliore con i curatori più giovani che con quelli della generazione venuta subito dopo la mia. Erano troppo interessati al potere. Una cosa molto importante capitata tra gli anni Ottanta e i Novanta è stata la maggiore presenza di donne curatrici, molte delle quali indipendenti, che sono state accolte come un regalo.
JH: Hai definito la Biennale di Venezia la “Madre di tutte le biennali”. Cosa ne pensi di questa proliferazione di biennali avvenuta negli ultimi anni? Non pensi che finisca con l’inflazionare la percezione dell’arte?
HS: Credo sia un’ottima soluzione — spesso l’unica — per quei paesi che vogliono allestire una mostra con finanziamenti pubblici. Pensa solo a Cuba. Se vuoi avere un’eco internazionale, importare il modello veneziano è quasi una garanzia. Però capisco cosa vuoi dire. È molto facile che queste mostre diventino semplici espressioni populiste, soprattutto se ai curatori viene imposto di lavorare in tempi brevi, come spesso accade. Va anche detto che le biennali devono soddisfare tutta una serie di interessi che non sono necessariamente legati all’arte.
JH: Il rischio è che queste mostre diventino degli eventi-contenitore senza taglio critico. Come si può evitarlo? Forse potresti spiegare meglio in cosa consiste il tuo “Museo delle ossessioni”.
HS: Quando mi sono dichiarato curatore indipendente, negli anni Sessanta, ho fondato l’Agency of Spiritual Guest Work. Era una struttura che organizzava mostre ma aveva anche un forte significato politico. Questo accadeva quando in Svizzera certi partiti politici stavano accumulando consensi semplicemente attaccando gli stranieri. Io sono di origini ungheresi e quando vivevo a Berna ho subito attacchi di stampo xenofobo a causa di questo e delle mie opinioni politiche. Da quest’esperienza è nata l’idea di Agency of Spiritual Guest Work, una struttura che creasse progetti curatoriali indipendenti, ma che desse anche un segnale su cosa significhi essere straniero.
JH: Quello che mi sorprende è quanto sia considerato normale oggi per un curatore sudamericano organizzare una mostra in Francia o per un francese fare qualcosa in Cina.
HS: Si tratta di una nuova forma di libertà che si intravedeva negli anni Sessanta e Settanta ma che abbiamo sperimentato solo di recente. Credo anche che il mondo dell’arte segua in qualche modo le strutture dell’economia globale. Il nome è diventato una specie di marchio. In quanto vecchio curatore, ho trovato divertente l’essere invitato a occuparmi della Biennale di Venezia. Avevo anche smesso di andarci, ero stufo dell’istituzione e dei giochi di potere che vi gravitavano intorno. Quando mi hanno chiamato ho detto loro che dovevano trovare il coraggio di competere con Kassel e documenta. Venezia ha a disposizione bellissimi spazi e si può allargare verso le Corderie e l’Arsenale. A Kassel invece lo spazio è limitato: quando ho fatto documenta 5, nel 1972, il Friedericianum era ancora un edificio con grandi spazi e soffitti alti; adesso hanno costruito un secondo piano e quella meravigliosa scalinata che c’era è quasi andata distrutta. Sembra un ospedale.
JH: Hai curato la tua prima mostra nel 1957, anche se ancora lavoravi in teatro.
HS: Nel 1956 inventai il “One Man Theater”. Volevo superare le difficoltà dell’ensamble teatrale, che allora era il modus operandi più in voga. Decisi di fare tutto da solo, la musica, i costumi, la parte recitata, ecc. Ai tempi studiavo anche storia dell’arte, ma non mi interessava più di tanto. I miei genitori non potevano mantenermi e fui costretto ad arrangiarmi. Nel 1957 istituirono un comitato per l’organizzazione di grandi mostre a San Gallo. Una mostra sugli artisti con più di un talento si chiamava “Painter/Poet-Poet/Painter”. Il comitato chiese a Franz Maier, allora Direttore della Kunsthalle di Berna, se conosceva qualcuno che potesse aiutarli. Maier conosceva la mia attività teatrale e mi raccomandò. Fu un’esperienza illuminante: mettere insieme una mostra aveva una tensione simile al teatro ma col vantaggio che una volta allestita restava lì, dandomi il tempo di preparare altre cose. Mi piaceva questa possibilità. Ecco come ho trovato la mia strada.
JH: Provenendo dal teatro, hai l’impressione che ci siano delle similitudini tra il ruolo del regista teatrale e quello del curatore?
HS: Conoscere la struttura del teatro e la natura dei rapporti con un insieme aiuta molto, ma non farei un analogismo tra le due cose. Negli anni Sessanta il dialogo con gli artisti era molto importante, spesso l’unica fonte di informazione, e forse si può trovare qualcosa di simile nel rapporto tra attore e regista. Penso che l’importante sia avere una visione, sia che tu faccia il regista o il curatore. La visione è la chiave di tutto, altrimenti diventa solo un puzzle di nomi.
JH: E qual è la tua visione?
HS: Cambia a seconda delle situazioni. Di solito matura dai rapporti che stabilisco con la gente e dalla memoria storica che caratterizza il posto in cui mi trovo.
JH: Oggi questa visione è venuta a mancare?
HS: Negli anni Ottanta era difficile parlare di queste cose senza farsi sghignazzare alle spalle. Oggi non è più un tabù affermare che vuoi cambiare il mondo. Possiamo ancora permetterci di essere idealisti. Penso che dobbiamo esserlo. Bisogna essere dei pensatori per dimostrare che c’è dell’altro al di fuori di ciò che vediamo.
JH: Quando hai lasciato la Kunsthalle di Berna, subito dopo “When Attitudes Become Form”, sei stato nominato curatore di documenta 5, nel 1972. Cosa ricordi di allora?
HS: La fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta erano tempi piuttosto agitati. Era impossibile non farsi coinvolgere da quello che stava accadendo. Quando arrivai a Kassel c’era una forte volontà di esplorare nuovi territori, e questo fu un grosso aiuto. A Berna avevo allacciato una serie di contatti internazionali che si rivelarono utili quando organizzai il “Museum of The Hundred Days”, come chiamavo documenta. Dopo l’esperienza di “Happening and Fluxus” a Colonia, volevo proporre qualcosa di attivo, attuale. Mi immaginai documenta come un evento di cento giorni non-stop. Volevo una struttura a tre livelli: la documentazione di cose piuttosto effimere, la presenza di artisti in grado di animare la situazione e il processo all’interno della mostra. Sono sicuro che molti la trovarono una mostra noiosa, visto che tanti artisti avevano un approccio didattico e un po’ saccente. Eppure Beuys creò il suo ufficio per la democrazia diretta, ed era lì tutti i giorni e sotto il tetto c’era La Monte Young con la sua installazione che proponeva un viaggio verso il lato interiore di ognuno. Gli artisti si parlavano e parlavano con il pubblico, e penso che questo ne fece una mostra interessante. Era come un grande racconto.
JH: Se dovessi confrontare documenta 5 e la situazione odierna, cosa trovi di diverso nel tuo rapporto con gli artisti e nella tua visione?
HS: Quello che sta succedendo oggi è molto positivo. Gli anni Sessanta erano un melting pot di intenzioni personali che sono gradualmente mutate fino agli anni Novanta, anche a causa dell’impatto che ha avuto la critica istituzionale. Oggi il lavoro degli artisti fa più riferimento agli esseri umani e al loro ruolo sociale. In questo senso la prossima Biennale di Venezia è molto legata alle cose che ho fatto agli inizi della mia carriera. Anche “Questioning Reality” è fortemente connessa con la mostra di Venezia. Confrontandosi con la realtà, molti artisti lavorano in modo interdisciplinare, muovendosi simultaneamente in campi differenti.
JH: In Italia ci sono state diverse lamentele in seguito all’annuncio dei nomi degli artisti italiani che hai invitato alla Biennale.
HS: In Italia si tende a discutere con fervore ogni cosa, e questo mi piace molto. Credo sia una bella sfida, ad esempio, mostrare in Italia per la prima volta il Papa di Maurizio Cattelan. Queste critiche non mi disturbano troppo. Sono dotato di un buon grado di consapevolezza quando faccio le cose.