Michele Bonuomo: Robert, dove sei nato?
Robert Mapplethorpe: A Long Island nello Stato di New York. Vengo da una famiglia middle class; la mia infanzia e la mia adolescenza sono state quelle di un qualsiasi ragazzo americano. Ho frequentato le scuole pubbliche, e poi a 16 anni lasciai la casa dei miei per trasferirmi a Brooklyn e mi iscrissi al Pratt Institute.
MB: Che cosa ti interessava di più da ragazzo?
RM: La pornografia.
MB: Lo dici come se ne avessi vergogna.
RM: No, no. Per niente.
MB: Perché ti interessava tanto la pornografia?
RM: A 16 anni ho scoperto la 42esima strada di New York (la strada dei locali proibiti, dei cinema a luci rosse, dei sex-shop, NdR.). Non avevo abbastanza anni per frequentare i porno-shop e il mio divertimento maggiore stava nello sbirciare attraverso le loro vetrine. Era il classico interesse di un teenager che guarda una cosa proibita, anche se non ero attratto da una morbosità di carattere sessuale. Era un tipo di interesse che mi penetrava nello stomaco, tanto ero pieno di energia; così cominciai a pensare che se fosse stato possibile trasferire questo sentimento in un’opera d’arte sarebbe stato importante.
MB: Robert, sei cattolico?
RM: Sì, vengo da una famiglia cattolica tradizionale.
MB: Quindi avevi molto forte un senso del proibito che provocava queste curiosità?
RM: Sì, anche questo è vero, però non dimentichiamoci che c’erano in quegli anni anche le leggi, oltre alla morale comune, che proibivano tutte queste cose.
MB: Intanto frequentavi il Pratt Institute.
RM: Sì, ma non è stata una grande esperienza. Era una scuola molto tradizionale, con tutto un apparato accademico nell’insegnamento. Insomma, studi vecchio stile.
MB: Fin dai tuoi primissimi lavori il sesso è la componente dominante, un’ossessione continua…
RM: Il sesso è sempre stato fondamentale nella mia vita, per cui è stata automatica la sua presenza nel mio lavoro. Se dovessi scegliere tra dieci cose, e il sesso fosse in questa lista, sicuramente occuperebbe il primo posto. Ti faccio un esempio estremo: se avessi una sola notte da vivere e dovessi decidere tra i soldi, il sesso e l’arte, non avrei dubbi, io sceglierei il sesso.
MB: Detto così tutto sembra molto estremizzato, in effetti nel tuo lavoro il sesso e l’arte si fondono in un’unica espressione.
RM: Certo, è proprio quello che mi interessa fare.
MB: Di che tipo è il sesso di cui ti interessi?
RM: È molto vario e cambia spesso. Ci sono stati momenti della mia vita in cui sono stato bloccato in un’immagine: sei anni fa avrei detto una cosa e l’avrei vissuta in un modo, oggi la vivo e ne parlo in un altro. In realtà quanto più si ha esperienza del sesso meno se ne conosce.
MB: Fammi un esempio di esperienza a cui sei stato maggiormente legato.
RM: Negli anni passati ero coinvolto in situazioni più severe di tipo sado-maso e anche le foto di quel periodo sono molto diverse da quelle attuali. Dico questo soltanto per far capire che l’elemento biografico e autobiografico è tutto il mio lavoro.
MB: Nelle foto di Lisa Lyon la componente sado-maso e quella di un formalismo classico si fondono insieme…
RM: Ho impiegato tre anni per realizzare quel lavoro, mi è servito a capire tutti gli aspetti delle fotografie fatte precedentemente. Perché non diventasse un lavoro e un libro noioso divenne fondamentale per me attraversare con un unico soggetto, Lisa per l’appunto, tutte le altre esperienze.
MB: Nei tuoi nudi, specie in quelli dei Black, la componente neoclassica dell’immagine non cerca alcuna inquietudine, anche gesti e pose a prima vista sconcertanti alla luce di questa trasformazione neoclassica diventano quasi rassicuranti.
RM: Anch’io penso la stessa cosa. Credo che questo sia un punto principale nel mio lavoro. In fondo faccio un lavoro molto tradizionale, ma anche molto contemporaneo. Queste foto non potrebbero essere fatte ora.
MB: Ti senti un genio maledetto?
RM: L’espressione è molto bella, suona bene, ma io non amo le definizioni e tantomeno definirmi. Definirsi è un po’ come psicanalizzarsi.
MB: Hai paura a farti psicanalizzare?
RM: No, forse un giorno si potrebbe anche fare. Oggi però non ne ho il tempo.
MB: Che rapporto hai con la cultura della tua generazione?
RM: Pur avendo 37 anni cerco sempre di restare in contatto con la cultura della mia epoca, specie con la musica; ora per esempio, mi interesserebbe molto fare dei video rock.
MB: C’è una vicenda culturale che più ti ha coinvolto o che continua a coinvolgerti?
RM: Anche questa realtà è soggetta a mutamenti: in un certo momento della mia vita mi ha interessato un certo tipo di situazione e di persone, in questo momento mi interesso di tutt’altro: mi piace il teatro, ho frequentato gente del cinema… In generale mi lego a una persona che poi mi coinvolge in tutta una situazione. Oggi però non mi sento di avere una grande passione per quello che faccio, il resto mi interessa poco. Forse sto invecchiando.
MB: Tu hai avuto una lunga storia con Patti Smith, che importanza ha avuto nella tua vita?
RM: Tutti hanno dei periodi in cui c’è qualcuno molto importante nella loro esistenza. Il 1968, l’estate dell’amore quando tutti diventarono hippies, io compreso, è quello il periodo in cui incontrai Patti. Ancora oggi penso che lei sia stata un genio della nostra generazione: voleva fare la pittrice, la scrittrice, leggeva poesie e poi cominciò a cantare e fu questa la sua grande strada. Con lei ho vissuto tutte queste transizioni. E lei a sua volta viveva le mie trasformazioni: il mio passaggio dal voler fare il pittore a poi diventare fotografo. Patti ha avuto una parte importante nella mia vita, ci sostenevamo a vicenda e non v’erano gelosie in quello che ognuno di noi due faceva: questo è molto sano in una relazione.
MB: C’è oggi un’altra Patti Smith nella tua vita?
RM: Certamente, anche se è tutta un’altra storia. E questo lo si capisce nelle fotografie che faccio. Ci sono persone con cui sono coinvolto e mi approprio delle loro idee e delle loro energie.
MB: Che cosa è più importante per te, fotografare o coinvolgerti con un modello?
RM: Sarebbe bello se le due cose avvenissero insieme, ma fare fotografie e fare sesso — per esempio — sono due cose ben distinte. Qualche volta mi è capitato di fare all’amore mentre facevo fotografie, ma non ha aggiunto niente al sesso.
MB: Probabilmente ha aggiunto molto alle fotografie. Ma passiamo a un altro argomento. Guardando le tue foto viene da pensare a Platt-Lynes e per certi versi Cecil Beaton.
RM: Sì, è vero, ci sono delle foto che si riferiscono molto al lavoro di questi due maestri, ma non vorrei essere definito il Cecil Beaton di questi giorni: l’ho conosciuto, lo stimo, ma non vorrei emularlo.
MB: Nelle tue foto crei però una certa aristocrazia del “trash” o del cattivo.
RM: Prendendo la gente della strada? Il problema è un altro: io ho sempre fotografato la gente che mi sta intorno senza mai forzarli e senza mai variare la mia maniera di guardarli, qualunque fosse la loro estrazione sociale.
MB: Quando parlo di aristocrazia mi riferisco alla capacità dell’immagine di trasformarli in superstar, o per certi versi di riscattarli.
RM: È giusto. Ti ho già detto che le mie foto sono autobiografiche: sono la mia storia e io voglio ricordare le persone che sono passate nelle mia vita e gli aspetti migliori di essa. Spesso le persone che fotografo non si sentono abbastanza gratificate dalle mie foto e io mi sorprendo perché cerco sempre di esprimere il meglio della gente. In questo senso mi sento l’opposto di Diane Arbus, sempre tesa a sottolineare i momenti più tristi e drammatici della gente.
MB: Questo tuo atteggiamento per certi versi è simile a quello di Andy Warhol sempre in cerca di “beautiful people”. C’è una sorta di mondanità nel trovare che tutto è bello.
RM: Per me Warhol è un genio, anche se spesso non ne condivido gli atteggiamenti: Warhol scruta la gente da voyeur e io non sono un voyeur.
MB: Credo però che in qualche tua foto una certa componente voyeuristica comunque sia ben presente.
RM: Per me voyeur è chi certe cose non le ha fatte mai e tenta di esprimerle usando gli altri. Quando ho fatto le foto sado-maso, immagini molto esasperate, erano un tentativo di ricordare e di riguardare delle foto che avevo già fatto, e la gente nelle foto faceva delle cose vere, reali. Non c’era alcuna messa in scena, nessuna finzione teatrale. L’esperienza è già più importante della foto in sé.
MB: Molto spesso il fotografo si nasconde dietro alla camera, e tu?
RM: Io non faccio foto, faccio parte dell’evento, in questo senso non mi considero fotografo. La fotografia per me è uno strumento per fare un oggetto. Forse un giorno smetterò di fotografare e mi metterò a fare tutt’altre cose. Intanto la camera è ancora uno strumento perfetto e troppo contemporaneo: raccoglie tanta energia in così breve tempo. Il mondo si muove rapidamente e la camera è il mezzo più sensibile per un artista.
MB: Che farai da grande?
RM: Qualcosa. Molte cose.