Il minimo comune denominatore di una performance si può individuare nella presenza fisica di un individuo chiamato a eseguirla. Questo, assieme alla presenza fisica di un pubblico, con cui potenzialmente interagisce, contribuisce alla creazione di un’opera temporanea. Nel suo recente libro Language is Skin: Scripts for Performances (Archive Books, 2018), l’artista svizzera Romy Rüegger ha raccolto dieci fra le sue recenti performance, non servendosi del metodo della documentazione, ma traducendole dal live action al formato della sceneggiatura, con l’obiettivo di reindirizzare il discorso dalla spectatorship alla readership.
In “Echoing movements to come”, la sua prima personale in Italia, l’artista compie un passaggio ulteriore in questo allontanamento dal bisogno della presenza fisica del performer, estrapolando una serie di elementi da tre delle performance presenti nel libro e traducendoli in installazioni. Il progetto, nel corso della sua durata, prevede dei momenti in cui queste vengono nuovamente attivate attraverso un programma di performance.
Il primo lavoro che notiamo entrando all’ar/ge Kunst è A Fabric in Turkey Red (2013-2019): cinque teli di cotone, appesi in verticale e tinti di rosso, riportano un particolare pattern prodotto da una fabbrica svizzera agli albori della Rivoluzione Industriale. Questi produttori compivano frequenti viaggi in Indonesia, ne studiavano i gusti estetici per poi produrre in Svizzera stoffe decorate con motivi di palme, scimmie e dromedari, destinate alla fascia alta del mercato orientale. La fabbrica coinvolta nella produzione dei tessuti impiegava prevalentemente manodopera femminile e infantile, e fu teatro del primo sciopero avvenuto nella storia della Svizzera, causato dall’introduzione di una campana che segnava l’inizio della giornata lavorativa.
Di fronte, tracciato con nastro argentato sul pavimento dello spazio, troviamo If You Lived Here, You Would Already Be at Yours (2015/2019), la planimetria in scala reale di un monolocale costruito nel 1926 dalla Cooperativa di abitazione per donne lavoratrici e progettato da Lux Guyer, prima donna architetto ad aver fondato uno studio in Svizzera. Questa “living machine” di circa 20 mq, se da una parte celebra la volontà di emancipazione femminile, dall’altra invita a riflettere sui processi di reclusione e addomesticamento operati in quell’epoca sulla figura della donna al di fuori dell’ambiente domestico.
Da quattro speaker installati agli angoli della planimetria proviene Climbing Monuments (2016-2019), un audio registrato durante una performance dell’artista al Museo Vincenzo Vela di Ligornetto, in Ticino. Ispirandosi a un bassorilievo in gesso che lo scultore svizzero-italiano dedicò ai lavoratori che morirono durante la costruzione della galleria del San Gottardo, Rüegger fa interpretare a quattro donne, nei quattro diversi accenti dell’italiano parlato in Ticino, un testo in cui si intrecciano vari temi, tra i quali la migrazione economica, il ruolo della donna e quello delle istituzioni culturali, in un costante confronto tra passato e presente.
Nella seconda stanza dello spazio espositivo la riproduzione della scenografia creata dall’architetto giapponese Isamu Noguchi per Appalachian Spring (1944) di Martha Graham viene trasformata da Rüegger in un display dedicato all’approfondimento delle opere della prima sala.
L’artista crea un dialogo fra le componenti di tre dei suoi lavori performativi, e da questo dialogo A Fabric in Turkey Red diventa la quinta di un teatro di cui If You Lived Here, You Would Already Be at Yours è il palcoscenico, su cui recitano le voci senza corpo di Climbing Monuments, in una stratificazione di storie, temi e temporalità fortemente umane, ma restituite della senza la presenza umana.
Riflettendo sul progetto, torna alla mente un concetto espresso dall’antropologo Paul Connerton nel libro How Modernity Forgets (Cambridge University Press, 2009) su ciò che accomuna il nostro corpo e i luoghi in cui viviamo: finché non sono legati a un problema, tendiamo a darli per scontati.