Rossella Biscotti riflette sulla narrazione attraverso video, foto, installazioni, oggetti. Il suo approccio è quello di proporre anzitutto un confronto con immagini di vita rubate di nascosto da lei in prima persona o recuperate negli archivi di altri esseri umani. Le sue opere così “presentano” i codici linguistici con i quali le immagini vengono costruite e fruite. Con i suoi video Rossella Biscotti ha utilizzato e destrutturato dall’interno il modello del documentario (Sparatoria su Dam, 2005), del telefilm o della soap opera (Muctar, 2003), ha scelto di aderire ai fatti della realtà senza alcuna sovrapposizione “di regia” (Il ripristino della vasca vuota, 2006), o di offrire immagini sospese nel giudizio e animate da un senso di meraviglia nel costruire un ritratto (in Patricia e Antonio o in Rick, 2002). Questa riflessione sull’immagine è solo l’inizio. Infatti, le sue opere possono essere definite come processi e hanno la caratteristica dei lavori site specific, non rispetto al luogo fisico ma all’idea mentale di come viene percepito e parallelamente fruito il luogo. Lavorare sul processo in fieri equivale a riflettere e rappresentare la natura della narrazione e le consente di chiamare in causa la presenza dello spettatore anche quando realizza video, interviene con le foto o, come nel suo prossimo progetto, proietta su una parete quella parola con un flash modificato. L’idea di innescare un nuovo processo mentale coesiste anche col lavorare sul processo che ha prodotto quelle date immagini, come ne Il sole splende a Kiev (2006). Questo progetto nasce da una ricerca di archivio destinata a mettere in relazione le persone coinvolte nel disastro di Chernobyl. Lo scopo del lavoro è riattivare una memoria collettiva e dare voce a storie personali, a eroi muti che scompaiono rispetto ai grandi fatti della Storia. L’immagine — tradotta in diapositive tagliando una pellicola 35mm proiettate in sequenza — sembra essere sempre la stessa, ma non lo è. I diversi fotogrammi sembrano innocui, e lo sono, hanno perfino degli errori di messa a fuoco. Ma qualcosa di essi ci riguarda profondamente. Seguendo il video (interviste fatte ai sopravvissuti di quell’episodio) e i passaggi riportati sul poster finale del progetto, comprendiamo che le “macchie” appena notate su alcuni dei fotogrammi non sono un errore della rappresentazione, bensì costituiscono il risultato della vita stessa. Quelle macchie sono il prodotto delle radiazioni che hanno attaccato la pellicola fino a diventare l’unica vera prova, muta, della effettiva presenza delle radiazioni nel momento in cui veniva girato il filmato documentario.
Il concetto di traccia è un leit motiv fondamentale per Biscotti. Nell’opera New Crossroads (2006), realizzata con Kevin van Braak in Sudafrica, le tracce sono travi di legno verde che si trovano disperse nelle case, inglobate nelle costruzioni o tenute nelle camere delle baracche come trofei. Questa dispersione è il risultato di un intervento diretto degli artisti nella vita e nel quotidiano di quel luogo: dopo aver realizzato una torre di travi in legno di colore verde (colore prezioso per la cultura locale) con l’appoggio degli abitanti del luogo li hanno invitati ad appropriarsene. Nel video vediamo la torre di Babele che si disfa: la forma chiusa in sé della scultura si disperde nella vita e diviene socialmente utile sia per costruire che per preservare la memoria di quel momento condiviso con la comunità in un modo diverso. La traccia per l’artista è quindi un indizio e un innesco. Ciò che lega i vari modi di rapportarsi alla realtà di Biscotti è infatti una riflessione sul ruolo dello spettatore in quel dato momento rispetto alla coscienza collettiva che dovremmo avere e sul potenziale propositivo dell’immaginazione.