Se capita di passare davanti a un televisore acceso verso le due del pomeriggio, in qualsiasi località degli Stati Uniti, è probabile ascoltare: “And here we have a very nice little sky”. E la voce di Bob Ross che sta insegnando al più inetto degli esseri umani come dipingere un paesaggio in 26 minuti, garantendogli che ci riuscirà se seguirà alla lettera le sue indicazioni nel programma The Joy of Painting, una trasmissione che lo ha reso milionario. “Wet on Wet” è la tecnica che usa e che offre risultati miracolosi, basta abbandonarvisi rinunciando a ogni velleità creativa, il risultato vi ricompenserà del sacrificio. Viene alla mente Bob Ross perché è coinvolto nella pittura in modo così estremo da renderla un procedimento automatico, allo stesso modo in cui Rudolf Stingel rende meccanico il suo coinvolgimento con l’arte. Fino al 1989 Stingel è un pittore assoluto, nel senso che non trova alla pittura un’alternativa plausibile senza doversi immergere in una metamorfosi artificiale, teoricamente inconsistente. Un’esperienza comune a molti altri pittori che sfortunatamente si disintegrano contro il problema. È sorprendente, invece, come nel quadro stesso si apra la via di uscita. Abbandonando il coinvolgimento espressivo, la pittura diventa, attraverso il manuale d’istruzione, un processo meccanico, eterno e variabile attraverso le lingue in cui le istruzioni sono impartite. Chi seguirà le indicazioni in Tedesco produrrà un’opera tedesca, il Giapponese condurrà a un prodotto giapponese. L’interpretazione è reale e non più intuitiva. È il processo che viene tradotto, variando nel senso, come ogni lingua trasferita in un’altra lingua e, quindi, nel sistema mentale. Automatizzato un processo storicamente personale, il linguaggio che si ottiene assume una dimensione globale impensabile per la pittura. L’argento depositato sul colore contraddice la propria apparenza esoterica, allargando all’infinito il numero delle possibilità all’interno di ogni quadro. L’argento è una scelta diretta a semplificare, il suo carattere minimale è insignificante e casuale. Anche la scelta del colore arancione è semplice, “You get what you see”, ovvero lo spettatore può fare l’uso che vuole della sua visione.
La galleria invasa dalla moquette arancione ha un carattere liberatorio, sia nel contesto dell’arte americana agli inizi del 1990, posseduta dalla poetica del “detrito”, sia nell’operazione intrapresa da Rudolf Stingel con il Libretto/Manifesto d’istruzioni. Da questo momento ogni opera, meglio ogni mostra, diverge dalla precedente rimanendovi, paradossalmente, parallela. Il quadro argento diventa, sempre di più, un punto di riferimento lontano ma costante, in uno spazio in cui si aprono di continuo nuovi corridoi. Appare inspiegabile come sia impossibile prescindere, sia per lo spettatore che per l’artista, dalla pittura, divenuta apparentemente un problema marginale, affrontato con sincero disinteresse.
Innegabile rimane però il carattere misterico di queste pitture che, con la loro presenza, nascosta negli anfratti delle gallerie, producono un effetto coagulante non tanto sul lavoro quanto nel processo mentale di Stingel. Le tele agiscono come viti nella struttura che si rinnova. Anche l’arancione pare affrontare questo processo di transizione da evidenza a presenza subliminale. La grandissima tela iperrealista presentata nell’autunno del 1991 a Parigi segnala la metamorfosi in atto. Di nuovo “You get what you see” assume delle proporzioni devastanti. Ogni emozione politica o concettuale viene essiccata attraverso un processo diametralmente opposto a quello delle tele astratte, ma ugualmente meccanico e spaesante. Il processo non è lineare, un imprevisto conduce a un altro imprevisto e così via. Le ultime sculture, formate da elementi componibili simili a quelli di un radiatore, anzi “quelli” di un radiatore, riprodotti in un materiale che affascinerebbe David Cronenberg, fanno parte di tutta questa dinamica d’imprevisti, che trova nella sua capacità di rigenerarsi attraverso un’idea tentacolare, in sistemi e materiali diversi, un’energia che pare contraddire il secondo principio della termodinamica. Anziché accumularsi in ordine temporale lungo il percorso, i progetti forzano un costante e reciproco chiarimento, definendo l’estensione di un paesaggio di cui fanno parte e che grazie a loro continua a estendersi.
Alla galleria Metropole di Vienna, Stingel azzera il colore invadendo la planimetria dello spazio con una moquette immacolata. Il visitatore è obbligato a togliersi le scarpe. Questa dimensione liturgica è però spezzata dal suono che esplode dal sottosuolo e che accompagna un video in cui immagini statiche, della memoria geografica e personale dell’artista, vengono attraversate da nuvole arancioni che cadono e si dissolvono. Il movimento verticale di queste nubi cromatiche crea un’equivalenza tra i valori morali e temporali, imposti dalla struttura gerarchica della nostra mente.
Infine, nella mostra da Paula Cooper (dove Stingel divideva lo spazio con Donald Judd, Robert Gober e Cady Noland), equilibri e relazioni nella grammatica del lavoro si ribaltano. Il tappeto bianco, scendendo e sovrapponendosi alla parete, crea una superficie impercettibile ma dalla quale esce, lentamente, tutta la carica sensuale, latente in tutte le opere precedenti.
Stimolando i propri sensi, in modo lucido ma ossessivo, Rudolf Stingel rimane/diventa/rimane un “pittore”. Questo è il risultato del suo continuo alterare il processo pittorico, traducendolo in una grammatica di stimoli sempre più vasta. Si constata, con un certo stupore, che l’attualità del quadro è dovuta al suo funzionamento, ininterrotto, quale terminale estetico da cui ogni altro impulso creativo viene decodificato e trasmesso. La tela si accende e si spegne sia nella sua attività di “prodotto classico”, sia come centrale di un’energia che si trasforma e ritrasforma. Il dipinto è un’onda nello spazio, invisibile e pronta a ricomporsi nel senso necessario al momento in cui si definisce un nuovo contesto.
Così l’artista non cerca quindi di spingerci verso il suo processo di beatificazione, rendendo ogni atto conseguenza inevitabile di un altro. Caso mai si muove in una direzione che tenta di escludere un sistema organizzato in termini di patologie artistiche, i geometrici con i geometrici, i politici con i politici, le donne con le donne, e così via. Non è infatti pensabile continuare a guardare l’arte attraverso i sintomi creativi che accomunano i vari artisti. È possibile invece immaginare un sistema di idee all’interno del quale i vari elementi creativi confrontino le proprie divergenze. Il sistema di comunicazione si attiverà automaticamente. Rudolf Stingel non fa altro che operare nell’ambito della democrazia che ci è concessa dal nostro pensiero.