Guido Molinari: Spesso ti appropri di un materiale estetico preesistente per introdurre degli slittamenti di significato. In che modo la tendenza all’astrazione si insinua in questo modo di operare?
Salvatore Arancio: L’astrazione si manifesta molto spesso nelle mie incisioni o nei miei disegni attraverso un processo di manipolazione di forme pre-esistenti. In altri casi preferisco introdurre nuovi elementi che si potrebbero collegare vagamente a un’estetica surreale o vicina al biomorfismo. Per questi inserimenti trovo l’ispirazione in alcuni insoliti fenomeni naturali, penso per esempio a formazioni geologiche come i Dirt Cones o gli Hoodoos, che attraverso la mia rielaborazione si trasformano in qualcosa di più arcano e inquietante. Nei miei collage, invece, l’astrazione geometrica, con le sue forme severe e perfette, viene utilizzata in maniera tale da creare un contrasto con paesaggi naturali dotati di una qualità visiva epica. Immagino queste forme come “spazi dentro lo spazio”, vuoti impenetrabili che invadono violentemente la superficie bidimensionale delle immagini iniziali. In questa maniera cerco di indagare l’opposizione tra ordine e caos.
GM: Che cosa ti attrae nella scelta insistita del bianco e nero, che sembra ricorrere spesso nei tuoi interventi?
SA: Considero il colore un elemento che può facilmente diventare superfluo e provocare distrazione. Di solito, quindi, nei miei interventi il colore viene desaturato o spesso totalmente rimosso. In altre occasioni mi sono spinto verso combinazioni bicromatiche, utilizzando colori che hanno forti connessioni con elementi naturali o con l’alchimia, come per esempio l’oro o l’argento.
GM: La reinterpretazione concettuale di opere esistenti, nel momento realizzativo, sembra costituirsi attraverso una commistione di soluzioni tecnologiche: ti servi di scansioni al computer, di animazioni, di riprese video o cinematografiche ma poi, in alcuni casi, al termine del processo ottieni un’incisione eseguita secondo tecniche tradizionali. In che modo riportare l’opera alla dimensione tecnica iniziale costituisce un valore nel tuo processo creativo?
SA: Per me questo è un aspetto fondamentale; provo a mantenere una coerenza concettuale tra la tecnica e il soggetto, cercando in questo modo di allontanarmi da un esercizio puramente formale. Mi interessa mescolare continuamente passato e presente per ottenere un effetto estetico ambiguo, difficile da datare temporalmente. Opero per introdurre un certo senso di nostalgia mediante l’utilizzo della tecnologia. Spesso diversi elementi, selezionati da un passato più o meno recente, sono accomunati dal fatto che hanno perso la loro funzionalità originale e sono diventati obsoleti o morfologicamente in stand-by, in una fase di transizione. Nel caso della mia serie di foto-incisioni, le illustrazioni geologiche tratte da libri di geologia del XIX secolo sono manipolate digitalmente, in modo da alterarne la struttura e il significato originario. Questo intervento ribalta la funzione originale delle rappresentazioni. Queste immagini, concepite inizialmente per esemplificare teorie scientifiche, finiscono per trasformarsi in qualcosa di fittizio e atemporale, mantenendo allo stesso tempo un senso di familiarità e di connessione al dato reale.
GM: Il sublime è un traguardo o un punto di passaggio all’interno del tuo lavoro?
SA: Certamente il sublime è intrinseco alle immagini di cui mi approprio e spesso le manipolazioni che creo enfatizzano e rendono ancora più estremi i paesaggi naturalistici iniziali. Ma è anche vero che nella mia ricerca non è una priorità evidenziare la dimensione del sublime. Sono molto più affascinato dalla nostra preoccupazione di creare ordine nel mondo che ci circonda. Per questo mi interessa l’estetica connessa ai vari sistemi di classificazione usati per questo scopo. Con il mio lavoro aspiro a proporre una nuova organizzazione di significati che rifletta su quanto poco conosciamo del mondo che ci circonda. In questa prospettiva anche i concetti scientifici risultano relativi, perché possono essere superati facilmente e quindi essere soggetti a possibili fallimenti. Questa condizione, dal mio punto di vista, crea un generale senso di incertezza e contribuisce a una nostra incapacità, nel tentativo di leggere il passato o di immaginare il futuro.
GM: A volte il corpo e la fisicità sembrano essere evocati nei tuoi interventi, o sbaglio?
SA: Sì, sicuramente. Molto spesso il suono è utilizzato in questa direzione. Ricerco certe frequenze o certi effetti per condizionare in maniera scultoria lo spazio e di conseguenza creare una relazione fisica con lo spettatore.
GM: Quindi anche l’attenzione verso lo spazio e la sua percezione gioca un ruolo determinante.
SA: In occasione della personale alla Federica Schiavo Gallery di Roma, l’installazione dei vari lavori voleva porsi in maniera mediata con l’architettura della galleria e con lo spettatore, per poter evocare un senso di disorientamento, ma non solo. Ho anche cercato di creare connessioni con esperienze lisergiche legate a rituali che nei vari secoli avevano come riferimento la natura.
GM: Quanto la tua cultura musicale influisce sul tuo immaginario e in che modo viene messa in scena nelle tue opere?
SA: La musica è stata una grande fonte d’ispirazione e ha influenzato in maniera più o meno diretta decisioni della mia vita. Il mio interesse verso figure come Aleister Crowley, Kenneth Anger o Derek Jarman nasce inizialmente attraverso l’ascolto di band come i Current 93 o i Throbbing Gristle. Nella mia pratica artistica questo si riflette in continui riferimenti a diversi gruppi o periodi musicali. In occasione della mia personale presso Spacex in Exeter in Inghilterra, l’installazione intitolata Everthing Keeps Dissolving conteneva un elemento sonoro ottenuto attraverso la manipolazione di un campionamento presente in un disco dei Coil del 1998. Il disco fu creato attraverso l’utilizzo di un unico tono chiamato “Drone”. Ogni tono aveva l’intento di riprodurre sensazioni legate all’effetto di una sostanza narcotica. Allo stesso modo, nella mia installazione, il suono interagiva con l’elemento visivo, in quel caso riferito a un fenomeno geologico denominato Folded Strata, con l’intenzione di evocare nello spettatore un senso di disorientamento spaziale e sospensione temporale.
GM: In che condizioni decidi di affidarti alla manualità e al tuo coinvolgimento diretto nel documentare la realtà?
SA: Quest’aspetto si riscontra in maniera più evidente nei miei lavori video e cinematografici. Per esempio, in maniera totalmente casuale, utilizzo modalità di stampo situazionista e mi ritrovo a camminare immerso nella natura o in zone limite della città senza una meta precisa, filmando elementi visivi dai quali mi sento attratto. Questi filmati diventano parte di un mio archivio, frammenti di memorie che al momento opportuno utilizzo creando connessioni e giustapposizioni tra elementi che spesso non hanno nessuna correlazione iniziale. In altri casi, un po’ come i geologi e i naturalisti che compaiono nelle illustrazioni vittoriane che colleziono, m’imbarco in spedizioni spesso fisicamente impegnative. Al momento sto lavorando su del materiale filmato in Super8 che ho ripreso durante un recente viaggio in Scozia presso la famosa Fingal’s Cave. L’ installazione che di recente ho realizzato al Museo Carlo Zauli di Faenza è un altro esempio nel quale si percepisce fortemente il mio rapporto fisico con la materia. L’opera è una composizione costituita da sculture in ceramica e da illustrazioni di micologia risalenti alla fine del XIX secolo, che poi ho manipolato. L’idea di investigare questo aspetto inizialmente nasce dalla mia fascinazione per le forme naturali che, come accadeva con le radici di Mandragora, erano impiegate in rituali di diverse culture proprio per il loro potere lisergico.
GM: Questo senso di mistero che giunge dalla rappresentazione di una natura per lo più costituita da paesaggi rocciosi, vulcanici, ha forse le radici anche nella dimensione della memoria, e quindi della tua esperienza personale?
SA: Sì in un certo senso, quasi senza accorgermene e in maniera molto organica, attraverso la pratica artistica mi sono ritrovato a narrare paesaggi molto vicini a quelli vulcanici, aridi, che vedevo quando ero piccolo e in prossimità dei quali sono cresciuto. Anche se tutto questo non è mai direttamente referenziale, sono comunque attratto da un immaginario molto legato a siti e memorie del mio passato personale.