Il senso nascosto delle cose, quella miscela di misterioso e d’indecifrabile che la nostra società non è più abituata a cercare né nei piccoli e tanto meno nei grandi fenomeni della vita per troppa distrazione da telepresenza, trova nel lavoro di Salvatore Arancio (Catania, 1974) una dimensione nuova, più materica e deflagrante. Essa mette in luce il bisogno di uscire da un eccesso di smaterializzazione per tornare a vivere la corporeità degli avvenimenti quotidiani, la loro esperienza non mediata dalla techné e dal controllo.
Da sempre interessato a rappresentare l’anima perturbante e sotterranea di mondi impervi e segreti agli occhi dei più – le grotte, i vulcani, i paesaggi erosi dagli agenti ambientali e quelli trasformati dall’uomo – l’artista trasferisce la sua territorialità natia – la Sicilia frutto di stratificazioni geologiche, culturali e storiche – nella rappresentazione di un mondo organico tra natura e artificio, realismo e visionarietà, tempo remoto e futuro. La sua ricerca prende le mosse dai paradossi del visibile e dai contrasti del reale che l’artista intercetta tra le pieghe del quotidiano, nei territori interstiziali, in quei luoghi paralleli sospesi tra esperienza, desiderio e immaginazione; tali antinomie sono rappresentate non sotto forma di antagonismi ma rivelano piuttosto delle assonanze inaspettate. La dura crosta del reale può celare il fantastico, l’inatteso: ciò che a volte appare surreale, bizzarro, borderline – come i mondi primordiali non lontani dagli scenari evocati dalle più sofisticate tecnologie o i viaggi psichedelici indotti per stimolare altri stati di coscienza – trova un suo temporaneo equilibrio, una ragion d’essere.
Teso a rivelare alchimie e rituali che parlano del bisogno di uno spazio magico da agire e, al tempo stesso, a reinventare nella contemporaneità pratiche artistiche quasi dimenticate (come la ceramica o l’incisione), il lavoro di Arancio esplora le potenzialità in essere delle cose, la magia dell’arte che da un blocco di argilla può trasformare la nuda terra in un oggetto dalla presenza viva, solida, proiettata verso il fantastico.
Il percorso che lo ha portato alle opere recenti e alla partecipazione alla 57a Biennale di Venezia nella mostra internazionale “Viva Arte Viva” ha in se stesso una sua particolare alchimia: la formazione dell’artista non viene dall’universo della ceramica e dallo studio delle tecniche tradizionali dell’arte – come invece questi lavori suggeriscono – ma prende le mosse dalla fotografia, linguaggio alla base della prima fase del suo lavoro. Lavorare con la fotografia ha maturato in Arancio la consapevolezza dei limiti a cui le immagini sono sottoposte dopo l’avvento della rivoluzione digitale: oggi chiunque può divenire un produttore d’immagini, inficiando così il loro potere rivelatorio. Dalla persistenza della tecnica a discapito dell’autonomia creativa, Arancio si allontana per sperimentare altri linguaggi, mettendosi in gioco come artista e impiegando una tecnica meno nota, ma soprattutto meno vincolata da tecnicismi di sorta – la ceramica, appunto. Questa migrazione ha un che di ironico poiché anche la ceramica esige conoscenze e competenze tecniche altrettanto rilevanti; ma per Arancio la differenza sostanziale con la fotografia risiede nella possibilità dell’artista di operare direttamente sulla genesi della forma e sul suo processo di sviluppo, delegando i formalismi e gli aspetti più tecnici ai ceramisti.
Questa libertà di movimento si è rivelata un punto di forza da cui partire per sperimentare nuovi modi di fare scultura, com’è accaduto durante la residenza nel 2011 presso il Museo Carlo Zauli a Faenza, dove Arancio si è cimentato nella creazione dei suoi primi lavori biomorfi, ispirati a colonie di funghi, presentati in dialogo con fotografie, disegni e collage di elementi naturali. Spostando lo sguardo dal carattere istantaneo, analitico e oggettivizzante della fotografia al gradiente misterico insito in un materiale informe e soggetto a pressioni, lavorazioni lente e trasformazioni che ne mutano l’aspetto nel tempo, quale è la ceramica. Arancio ha potuto aprire la sua ricerca alle alchimie del mondo fisico. Infatti, la ceramica si modella e si modifica secondo quegli agenti che sono parte del mondo naturale, come la terra, l’acqua, l’aria, il fuoco, uniti alla forza di gravità con cui il lavoro dell’arte si deve necessariamente confrontare. L’organicità dei suoi materiali concorre poi a trasferire nell’arte quel senso dimenticato di corporeità e la dimensione di un tempo trans-storico, non oggettivizzato dai media, ma fluido e immemore.
L’installazione ambientale It Was Only a Matter of Time Before We Found the Pyramid and Forced It Open (2017), realizzata per la Biennale e presentata al Giardino delle Vergini dell’Arsenale, rappresenta l’apice di una ricerca iniziata appunto con la residenza al Museo Zauli. Tra il verde delle piante Arancio ha collocato dei menhir in ceramica dai colori sgargianti e dai riflessi metallici, che si innestano su delle basi che sembrano rocce prelevate da un paesaggio vulcanico. Sembrano funghi magici spuntati improvvisamente da pozze di terra nera o presenze aliene dal fascino oscuro che turbano la quiete del giardino. Guardandoli si ha anche la percezione di trovarsi di fronte alle torri di una civiltà tanto primordiale quanto proiettata verso un futuro indefinito, elementi di raccordo tra tempi distanti e mondi ignoti. Per questo lavoro l’artista è stato ispirato dalla scoperta di alberi pietrificati a causa di un’eruzione vulcanica avvenuta nel 1790 alle Hawaii, un fenomeno devastante quanto dimenticato nel tempo, che testimonia l’entropia sublime e terrificante dei cicli naturali.
Realizzata a Faenza presso la Bottega d’arte ceramica Gatti – antico laboratorio ricco di suggestioni materiche che racchiude la memoria di quasi un secolo di ceramica nell’arte – l’installazione ha richiesto un importante lavoro di realizzazione scandito da diverse fasi tra modellazione, cottura e smaltatura. Per quest’opera Arancio ha voluto sperimentare pratiche non convenzionali come la coloritura a freddo di alcune parti, che sono state dipinte quindi dopo la cottura e non prima, come invece avviene di solito. Quello della coloritura a freddo è un procedimento non ortodosso, poco in uso nel mondo dei ceramisti, che tuttavia ha permesso ad Arancio di preservare la tessitura materica della parte vulcanica, spostando così i canoni della tradizione verso esperienze più inedite – una direzione intrapresa anche da altri artisti contemporanei (da Rosemarie Trockel, a Ken Price, a Emma Hart), ugualmente sensibili a nuove possibilità espressive celate in pratiche dall’anima antica. Lo stesso titolo dell’opera annuncia l’immagine di nuove scoperte e di un mondo delle origini che si schiude all’avvenire, ai cambiamenti del tempo, a una realtà aumentata.
Arancio è presente in Biennale anche con un’altra opera del tutto diversa da quella appena descritta: MIND AND BODY BODY AND MIND (2015), un video ispirato all’ipnosi-terapia, per cui è stato invitato in prima battuta dalla curatrice Christine Macel. Presentato all’interno di un basso stabile accanto al giardino, il video prende spunto da un tutorial scoperto casualmente dall’artista sul web che mostrava come implementare le proprie capacità creative (letteralmente come “diventare artisti migliori”) dopo una seduta di ipnosi. L’aspetto paradossale e ironico del filmato fai-da-te con pretese divinatorie ha colpito la fantasia dell’artista, che ha ricostruito la sua dimensione allucinatoria e psichedelica in una performance sotto forma di seduta di ipnosi-terapia durante la quale trasformare i partecipanti in artisti.
Apparentemente scollegate tra loro, le due opere presentate alla Biennale indagano la presenza di universi paralleli, alternativi e non controllati che vivono silenziosamente sotto traccia, accanto alla quotidianità comune. Anche gli stati mentali di non lucidità, come la trance, rientrano in una dimensione di metarealtà che apre a esiti nuovi. Una tale fenomenologia di eventi, prodotti tanto dall’uomo quanto dalla natura, sfugge alle regole del razionale producendo sublimi non sense, a tratti ironici, altre volte più inquietanti, comunque tutti espressioni di un sentimento dello straordinario.
La relazione tra il fare dell’artista e la terra che – in un intimo rapporto fisico – prende forma sotto l’azione del suo corpo, delle sue mani, è riscontrabile nell’estetica delle opere di Arancio, sculture di piccole, medie o grandi dimensioni che ricordano stalagmiti, lapilli solidificati di lava, meteoriti e formazioni geologiche. Adottando diverse tecniche – alcune proprie della tradizione, altre più sperimentali – per produrre queste forme inedite, Arancio ha potuto rappresentare la complessità magica del mondo minerale e mostrare le potenzialità di un’arte di cui riscoprire quella polisemia materica che, dopo le parentesi felici di Lucio Fontana e di Asger Jorn, sembrava annichilita dalla sua funzione artigianale.
Nella sua personale dal titolo “And These Crystals Are Just Like Globes of Light” presso la galleria Federica Schiavo a Milano (aperta in contemporanea all’evento veneziano), Arancio ha riproposto con dimensioni più intimiste quel contesto immaginario di un cosmo sospeso tra passato e futuro che gli è caro. Nella prima sala della galleria ha riallestito in maniera inedita un corpo di opere in ceramica prodotte nel 2016 per la mostra “Oh Mexico!” alla Kunsthalle di Winterthur (Svizzera). Queste opere reinterpretano in modo originale e fantastico lo scenario della Grotta dei Grandi Cristalli, situata sotto la miniera d’argento di Naica in Messico. L’artista ha così creato una sua grotta interiore, popolata da rocce, stalagmiti e concrezioni vulcaniche zoomorfe dai colori diversi. Un regno surreale, uno spazio di proiezione delle fantasie e delle pulsioni più ancestrali in cui percepire l’afflato di un’entità ultraterrena.
Attraversata questa prima sala, la mostra assume una luce e un’atmosfera diverse: le pareti si tingono di giallo e neon caldi illuminano la stanza, producendo così l’immagine di uno spazio alieno. Qui Arancio ha presentato una versione più ridotta e multiforme dei grandi totem iridescenti esposti a Venezia, trasportando lo spettatore in uno spazio di presenze curiose ed enigmatiche, una sorta di teatro di riti ed epifanie in cui la natura è rappresentata in tutto il suo potenziale metareale.