Giacinto Di Pietrantonio: Tu sei un artista che ha sempre compromesso arte e vita; cominciamo allora da quest’ultima.
Salvatore Scarpitta: Sono nato a New York, ho fatto il Liceo in California, a 17 sono andato all’Accademia di Belle Arti di Roma. Non parlavamo italiano in casa, perché mia madre è di origine russo-polacca e mio padre parlava con lei in inglese. Per cui ho imparato l’italiano in Italia, dove mio padre ci mandò dopo gli studi superiori.
GDP: In che anno sei arrivato a Roma?
SS: Nel settembre del 1936. In principio non mi ammisero all’Accademia, perché dissero che non conoscevo la lingua e quindi mi sono iscritto nel 1937.
GDP: Con chi hai studiato?
SS: Allora il gerente era un pittore ufficiale del re che si chiamava Carlo Siviero, un uomo conservatore, rigoroso e abbastanza impossibile umanamente, poco propenso ai giovani e all’arte nuova.
GDP: Chi studiava con te?
SS: I Cascella, Andrea e Pietro, che poi si allontanarono a causa della guerra. Gli unici veri amici di allora erano alcuni futuristi, tra cui Sante Monachesi, Prampolini, Roberto Melli che, però, era di Valori Plastici. Ho conosciuto anche Mafai.
GDP: Come era il clima culturale di allora?
SS: Terrificante. Pensa che questo Siviero scrisse a mio padre che mi doveva rinchiu- dere in convento.
GDP: Perché, che tipo di lavoro facevi?
SS: Ero un ragazzino, il più giovane dell’Accademia, in un certo senso ero fuori posto. Se non fosse stato per questi giovani artisti di allora come Melli, Guttuso, Cagli, la mia vita a Roma sarebbe stata impossibile.
GDP: Per quanto tempo sei rimasto a Roma?
SS: Fino allo scoppio della guerra, nel 1940, quando mi diplomai all’Accademia e partii per la Romania, ospite del console americano a Bucarest. Al mio ritorno, però, fui bloccato in Jugoslavia, perché ci fu un colpo di Stato. Mi unii a certi ragazzacci del tipo della via Paal in una situazione pre-partigiana. Dopo un po’ riuscii a rientrare in Italia e il mese successivo scoppiò la guerra con gli Stati Uniti.
GDP: Così, tu sei rimasto bloccato per tutto il periodo della guerra in Italia?
SS: Sì, per un certo periodo fui internato, poi confinato a Scanno, in Abruzzo. Infatti riuscii a fuggire e a rifugiarmi sopra Frattura (una frazione del comune di Scanno), rimanendo in montagna fino a quando non oltrepassai le linee. Allora c’erano tanti prigionieri scappati, gli Appennini erano una specie di palestra di gente di tutte le razze che fuggiva verso il Sud. Dopo un periodo abbastanza interessante in montagna mi unii a dei paracadutisti americani e partigiani italiani a cui facevo da interprete e passammo le linee a Castel di Sangro nel maggio del 1944.
GDP: Naturalmente in questo periodo non potevi lavorare, occuparti d’arte.
SS: Feci dei disegni, ritratti di amici partigiani, di paracadutisti, ma erano momenti in cui eravamo ricoverati in montagna, nelle grotte. Mi ricordo che nel Natale del 1943 sopra Frattura c’erano delle capanne di pastori su cui abbiamo dipinto un albero di Natale. Comunque, passate le linee, sono andato a Napoli, poi mi sono arruolato volontario in Marina, che mi rilasciò come interprete dell’esercito, poi, alla fine della guerra, mi impiegarono alla Commissione alleata per la ricerca delle opere d’arte trafugate. La guerra continuava con il Giappone e per un disguido pensarono che io sapessi anche il giapponese (ride) e fui mandato in Giappone. Quando poi seppero che non conoscevo il giapponese mi congedarono, tornai a far visita alla mia famiglia in California e dopo un po’ ripartii per Roma, dove ripresi la mia attività all’inizio del 1946.
GDP: Facesti anche una mostra?
SS: Sì, da Tanino Chiurazzi, un umanista che conosceva molti poeti, pittori come De Chirico, de Pisis, Severini e altri. Aveva un piccolo negozio di marmi e bronzi antichi in cui ogni tanto esponeva qualche artista suo amico.
GDP: Come andò la mostra?
SS: L’unico che mi comperò qualcosa fu l’ambasciatore di Haiti Max Sam, che era anche docente di Filosofia e che fu rimos-so quando Duvalier andò al potere. Credo che fosse un gesto amichevole. I miei amici di allora erano i comunisti e i socialisti del CNL. C’era l’entusiasmo per questa Italia che risorgeva, ma credo che i miei amici americani non capissero molto il senso del dibattito che c’era in Italia. Gli americani con il Partito Repubblicano e Democratico non hanno un retroscena parlamentare e di conseguenza le discussioni filosofiche sulla politica sono ridotte a forme semplici, mentre qui in Italia erano assai complesse. Si parlava di un’Italia libera e abbiamo avuto un formidabile appoggio da parte di uomini come Bruno Buozzi e Pietro Nenni. In questo senso come Fronte di Liberazione ho avuto un incredibile appoggio nel cominciare la mia vita d’artista in Italia, mi furono aperte le braccia della cultura moderna italiana. La figura di Scipione, per esempio, era formidabile. A quei tempi si imbastì il corpo dell’artista italiano di oggi: anticonformista, un po’ anarcoide, molto intellettuale, estremamente affabile e gioioso per la sua libertà. Infatti, la mia formazione non solo come artista ma come uomo è avvenuta in Italia, perché in America ci rimasi fino a 17 anni e potei guardare a essa come sogno storico alla cow-boy, ma la natura palpabile dell’uomo l’ho conosciuta qui in Italia. Ora sono da trent’anni alla ricerca di questa nuova palpabilità del corpo umano americano ed è per questo che corro con le auto, perché voglio gareggiare, come dicono gli spagnoli, mano nella mano con il mio fratello per sapere e conoscere la sua psicologia, specialmente in un sport che mette a rischio la vita. Questo è un modo per conoscere in tempi di pace la fisicità e la moralità di un avversario improvvisato da circostanze non esterne, ma desiderato.
GDP: C’era un vento di libertà, ma anche una “guerra” nelle arti visive tra arte astratta e figurativa.
SS: I miei amici più vicini erano Mino Guerrini, Piero Dorazio, uomini del Fronte della Resistenza come Giulio Turcato, Consagra, Mafai. Se guardi bene questi artisti, nessuno di loro ha mai abbracciato una via estetica imposta. Ci sono stati alcuni momenti in cui facevano una vignetta politica su un giornale per dichiarare un’adesione alla pace e cose del genere, ma non come imposizione di una formula d’arte. Ricordo che una volta sono stato chiamato a Mortara, un paese di mondine, per partecipare a un concorso di pittura, e l’unico quadro astratto era mio. Mi consentivano di essere astratto, perché dicevano: “È un americano, un alleato”. Ma erano interpretazioni loro, la mia interpretazione era che si faceva dell’arte come meglio si poteva e non credo che si potesse fare dell’Arte Programmata. Infatti, eravamo contro questo tipo di arte, ma non era una guerra acerrima, perché non avevano ancora dei veri e propri artisti, ma dei giovani più o meno abili nell’illustrare le cose. Bisognava portare la vita su quella china dove si paga di persona, non attraverso l’ideologia, e questo era l’unico modo in cui noi potevamo entrare in un dibattito internazionale. Così cominciammo ad avere i primi contratti con la Francia e altri Paesi. Poi ci fu la galleria di Plinio de Martiis, La Tartaruga, dove arrivarono a esporre anche amici americani, come Cy Twombly.
GDP: Siamo alla fine degli anni Cinquanta, inizio Sessanta e tu non eri più tornato in America nel frattempo?
SS: Sì, nel 1953, per mia madre e per partecipare a un programma televisivo sulla mia vita, su che cosa volesse dire stare lontano dall’America, dalla mia famiglia e incontrarmi di nuovo con loro dopo la guerra.
GDP: Quindi, tu non avevi conosciuto gli espressionisti astratti?
SS: Li conobbi allora, esposi tre quadri nel 1953 alla Steibal Gallery, in cui esponevano Twombly e Rauschenberg. Fu un brevissimo incontro, ma la mia lancia in quel momento era unita all’arte italiana.
GDP: Che tipo di lavoro facevi?
SS: Ero stato sempre interessato al movimento d’avanguardia antifascista e quindi la mia arte non era basata su concetti quattrocenteschi o classicheggianti. Ero amico di Carlo Levi che ci aveva parlato delle cose importanti che succedevano all’estero, come Picasso e altro, ma io come americano conoscevo già un po’ la cultura figurativa europea al di fuori dell’Italia.
GDP: Poi, verso la fine degli anni Cinquanta il tuo lavoro cambia…
SS: Il cambiamento è avvenuto sempre dall’interno. Ho fatto dei quadri nel 1957, esposti nel 1958 da Plinio, che erano tele avvolte, e feci una mostra anche a Parigi da Iris Claire che esponeva Yves Monochrome — che poi divenne Yves Kleine — e Christo. Si stabilì un certo rapporto tra artisti francesi e italiani. Nel 1957 arrivò in Italia per la prima volta Leo Castelli, portato da Dorazio. Ci incontrammo, si interessò di me perché mi definì “un pittore on the beach”, che aveva bisogno di salire sulla sua nave ed essere riportato in America nella sua galleria.
GDP: Ci sono alcune tue opere che sembrano vicine al lavoro di Burri.
SS: No, perché il lavoro di Burri ha un impianto postcubista e io no. Hanno sempre chiamato il mio lavoro espressionista, mentre io ho fatto una lotta interna per contenere questo espressionismo dei primi quadri che portano alle croci di Sant’Andrea. Io vengo da un retroscena abbastanza classico, come Fontana. Se, infatti, prendi dei miei quadri e li metti vicino a quelli di Fontana, ti accorgi che in lui il taglio è gesto mentre in me è conclusione. Quando la pittura a olio colava dalle mie dita sentivo che la tela stessa doveva in qualche modo aprirsi, perché io potessi arrivare a una forma di realtà maggiore con il mio lavoro, perché la mia storia non è estetica, è ricerca di contenuti. E per questo che ho potuto gareggiare con i miei confratelli americani. Per tutti questi anni, infatti, non è stato possibile catalogare l’estetica di un mio quadro, perché il mio è stato un cammino individuale. Leo (Castelli, ndr) disse: “Salvatore non arriva sulle onde, nuota da solo”. E se lo dice lui c’è un po’ di verità. Sai cosa ha fatto Burri? Ha stabilito una dignità che per noi era d’esempio. Non era necessario neanche guardare i suoi quadri, perché il suo aiuto è stato così morale in un momento in cui c’erano tanti pittori “sedotti” dall’Espressionismo Astratto, che bisogna ammettere che senza l’esempio morale di quell’uomo lì la vita non sarebbe stata possibile. L’etica che lui ha portato nell’arte italiana è di gran lunga superiore a qualsiasi altra cosa. Credimi! Perché eravamo circondati da bugiardi della figurazione, esperti della coiffeur espressionista e ci sono voluti determinati artisti per dare all’Italia l’ossigeno di cui aveva bisogno. Artisti come Pascali, Manzoni, Burri, Fontana e altri di grande etica come Dorazio, l’amico Paolini, De Dominicis con la sua straordinaria libertà di affrontare la realtà. Infatti non potevo prendere niente dagli americani, dagli espressionisti astratti che erano una cosa chiusa, conclusa. L’America mi ha aperto altre frontiere.
GDP: Che tipo di frontiere?
SS: Se si parla di individualità le frontiere sono innumerevoli, come ritrovare i sogni d’infanzia, come le auto da corsa. Questa è la realtà che ho potuto ricominciare a costruire, un’America settentrionale al di fuori della cultura europea, un’America non basata su un’arte etnica, ma sulle popolazioni umane che non avevano conosciuto, nulla dell’enorme civiltà che avevamo qui, come quella dei pellerossa, ad esempio. Per me le cose che ho imparato da loro sono altrettanto precise che per uno che invece studia una pennellata di Monet.
GDP: In che anni trasformi il quadro in oggetto?
SS: La libertà me l’ha data l’Italia. Se non avessi avuto l’esperienza italiana non avrei potuto vedere l’America con occhi nuovi. È stato un peccato che artisti italiani siano venuti in America, portando dei lavori già fatti.
GDP: Il tuo rapporto con l’arte americana quale è esattamente? Ad esempio con la Pop Art?
SS: Mi interessò marginalmente, perché mi sono sentito spettatore e non parteci- pante. Ho conosciuto tutti gli artisti pop, perché eravamo nella stessa galleria, ma la loro era un’arte che in fondo mi interessava poco. Nel 1963 feci una mostra da Leo, c’erano alcune persone che guardavano un mio quadro, che ora è nel museo Cran Art dell’Illinois, che dicevano: “È un’opera vecchia, tratta di tragedie umane”. Allora rimasi terribilmente ferito, perché mi resi conto che le cose umane erano fuori dall’America, che si stava avvicinando alla Pop Art. Sai, io avevo visto aerei bombardare città e quindi non li potevo esaltare. E così ho lasciato i miei amici pop giungere alla loro maturità umana in mezzo agli altri loro coetanei e ora a distanza di 20/25 anni vediamo che fanno dei bei fiorelloni gialli e noi, invece, siamo sempre interessati all’umanità. Con ciò non voglio esprimere nessuna critica, solo precisare una questione storica. È quello che un popolo vive. L’ultimo quadro prima di fare le auto da corsa era incentrato su cosa significa paracadutarsi sopra la foresta vietnamita, dopodiché mi sono detto che se ci sono altre guerre voglio dichiararle a me stesso; le corse per me sono una forma di guerra tra i partecipanti che dispongono di una tecnologia formidabile e di una delicatezza fino alla morte, perché l’aggressione va collocata dove non nuoce ad altri che a se stessi. Allora, la corsa mi dà un’enorme tranquillità quando ritorno nel mio studio, dove c’è un silenzio da chiesa. E ciò non c’entra con il Futurismo, non c’entra con l’estetica. È un sogno d’infanzia che accade e si avvera per amore.
GDP: Quali sono le caratteristiche di queste automobili?
SS: Macchine di grossa cilindrata 800 cavalli per una macchina che pesa circa 750 Kg — costruite per correre su piste di terriccio. Spero che un giorno verrai a vederle.
GDP: Speriamo. E l’estetica dove si colloca a questo punto?
SS: L’estetica avviene nel tentativo di esprimere il contenuto. La cultura umanistica presuppone che uno abbia i mezzi per poter piegare la forma a un contenuto nuovo. E in questo senso riesco ad andare avanti facendo dei quadri che per prima cosa sorprendono me. Sono arrivato al punto di dire che i quadri non sono stati fatti da me, ma da una osmosi di cui io sono uno strumento che trasmette certi rimasugli dell’esperienza delle corse, diventando catarsi che dà modo di fare il quadro ex novo e non per ripetizione. Quelle slitte non le ho mai cercate, vengono fuori dallo chassis di una macchina.
GDP: A livello metaforico il tuo è un lavoro dedicato all’umanità con una chiave antropologica?
SS: C’è ancora la voglia di amare gli altri, ma senza ideologia o sentimentalismi, come fatto etico. Nel cinema trovi il sentimentalismo, nel mio lavoro c’è un’architettura pellerossa costruita solo da un’etica delicata.
GDP: Hai una produzione elevata o contenuta di opere?
SS: Non molto, al massimo 6/7 all’anno.
GDP: Ma fai schizzi, progetti preparatori?
SS: No, perché una mia opera o sta insie-me o non sta insieme e quindi non può essere programmata, perché io lavoro sul vivo, sul processo stesso. Ciò è accaduto già nel 1957, quando ho cominciato, ma non sapevo cosa venisse fuori, sapevo solo che le mie tele erano ferite e quindi bisognava bendarle. Difatti, Alberto Moravia mi chiamava “il pittore dal braccio rotto”. Comunque, sulle fasciature è stato detto di tutto, anche che hanno relazioni con quelle delle mummie, ma a me sinceramente colpiva la fasciatura dei volanti delle automobili da corsa, o delle biciclette: è da lì che vengono.
GDP: C’è stata una certa attenzione per il tuo lavoro?
SS: Sì, c’è da dire che persone come Leo Castelli in America e Luciano Pistoi in Italia hanno sempre sostenuto il mio lavoro. Il primo mi ha sostenuto anche economicamente in tutti questi anni, il secondo nel 1972 mi portò alla Biennale di Venezia con 40 quadri e due macchine da corsa. Poi c’è stato il direttore del Museo di Huston e critici come Collin Milazzo che esposero i miei quadri con i giovani artisti americani.
GDP: Frequenti gli artisti più giovani con cui ti capita di esporre in collettiva?
SS: Certo, alcuni di loro sono stati miei studenti, come Schnabel, Kosuth, Not Vital. E devo dire che li amo moltissimo, sono bravissimi all’interno della loro parentesi storica che rappresentano al meglio. Devono poi cercare di essere classici per uscire fuori da tutto questo e rafforzare la loro individualità, uscire fuori dagli schemi catalogati.
GDP: E difatti Schnabel negli ultimi anni ha fatto delle opere usando tele militari.
SS: Sì, l’ha imparato da me, ma non è questo quello che importa, ognuno è suo. Difatti, anche Manzoni venne da me a Roma chiedendomi se poteva imitare le fasciature e fece le tele increspate. A me sinceramente parve poca cosa, in quanto pensavo che uno come lui dovesse fare cose più importanti, come ha poi fatto, dimostrando di essere un grande artista.
GDP: Nel mondo dell’arte c’è stata dal dopoguerra una forte contrapposizione tra America ed Europa come due modi di concepire la cultura; oggi che l’Europa va verso la sua unificazione le cose forse andranno diversamente. Cosa pensi di questo fenomeno tu che sei metà di cultura americana e metà europeo?
SS: Questa unificazione è una cosa straordinaria per un’Europa più forte e più bella che mai, anche se posso sembrare troppo idealista. L’America deve rilanciarsi, perché non può vivere sulle sue glorie anche se sono vecchie di tre anni. Ciò è vero pure per l’Italia, dove non c’è un muro di Berlino, ma un muro invisibile che non lascia agli artisti italiani la libertà straordinaria che hanno e che si meritano per il loro lavoro; lavoro che, invece, dovrebbe essere appoggiato sempre più da tutte le forze economiche di questo paese. Per far ciò bisogna dire basta ai quadri di convenienza commerciale.
GDP: Ma quando dici questo ti riferisci a quegli artisti che hanno riportato la pittura nell’arte, come Cucchi, Salvo, Clemente?
SS: No, perché penso che in loro c’è sempre un rischio morale. Per cui non posso avere nessuna critica da fare a uomini che riescono a marcare un certo limite.