Catherine Wood: Il tuo recente lavoro fa riferimento o si caratterizza per l’utilizzo di immagini di uomini appartenenti a organizzazioni politiche degli anni Sessanta e Settanta (per esempio Lotta Continua). Cosa ti ha attratto di questi gruppi e delle immagini che hanno creato che potresti avere visto dai media, che ti ha portato ad appropriartene?
Seb Patane: Ciò che mi attrae di queste organizzazioni è la loro decisione consapevole di operare all’interno di un ambito politico, pur continuando ad avvalersi di una componente fortemente visiva. I fondatori di Lotta Continua, per esempio, descrivevano il loro modus operandi come “violenza d’avanguardia”, abbracciando così il pensiero di un certo tipo di performatività. Avevano un’identità visiva precisa che impiegavano per realizzare obiettivi politici estremi. Alcune di queste immagini sono finite per diventare delle icone storiche: per esempio quella di Aldo Moro — sequestrato dalle Brigate Rosse e fotografato di fronte a uno striscione raffigurante un pentacolo, simbolo adottato dai brigatisti — è un’immagine che arde continuamente nel mio subconscio e sono sicuro anche in quello di molti italiani.
CW: In che modo l’aspetto “estetico” di quei movimenti di protesta si relaziona alla tua attività come artista?
SP: Il fine di questa appropriazione è insinuare idee che interroghino il potere della cosiddetta opera d’arte politica. Alcuni tipi di scelte visive adottate da questi gruppi di protesta, come gli striscioni o l’uso di quello che io chiamo l’anti-ritratto, sembravano relazionarsi a questioni verso cui io stesso sto provando a indirizzarmi in alcuni miei lavori. Per la precisione, non ho mai voluto essere esplicitamente politico; infatti il mio approccio a temi di questo tipo è simile a quello di uno studente un po’ pigro. Nel documentarmi sull’iconografia visiva di quegli anni rivoluzionari ho iniziato ad avvicinarmi alle motivazioni che stavano dietro al bisogno di fare un lavoro, o proprio di proporre un’asserzione sociale che stesse provando a trasmettere una qualche sorta di messaggio, possa esso rivelarsi riuscito o meno, costruttivo o distruttivo.
CW: Che rapporto hai con la fotografia? Spesso usi immagini storiche che manipoli o alteri in diversi modi, come se ci fosse un senso di violenza nei loro confronti che ti costringe a distruggerle in parte.
SP: La mia attrazione iniziale verso queste fotografie è piuttosto viscerale, nel senso che il tipo di trasporto che provo è quasi una reazione emotiva. Immagino si possa anche dire che ci sia già una sorta di violenza connessa a questa relazione, ma ha più a che fare col modo in cui la mia coscienza è stata contaminata da quell’immagine. In realtà, relazionarmi a queste immagini diventa alla fine più un atteggiamento rispettoso che eversivo, ma si ha la sensazione che, in quanto reazione a quella violenza psicologica, l’esito finisca per sembrare il bisogno di un qualche tipo di astratto occultamento, quasi per compensare quel senso di devozione verso l’immagine. È un gioco di contraddizioni.
CW: C’è un parallelismo tra il modo in cui intendi l’uso di questi aspetti “fuori controllo”, come le rimozioni con la penna biro nera dei primi disegni o i segni “censurati” delle fotografie più recenti, e l’inserimento della musica nello spazio?
SP: Credo sia una sorta di reazione a catena. Dal momento che, come sai, lavoro spesso all’interno di una cornice molto rigida — i pannelli in MDF, il conciso allestimento spaziale, la presenza rada della maggior parte delle installazioni — mi sento alla fine costretto a dare alle cose una dinamica differente introducendo per esempio un suono, che per definizione è intangibile perciò volatile e più anarchico. Ironicamente ho finito per introdurre quel tipo di censura iconografica di cui hai parlato solo per equilibrarla a sua volta; i primi disegni danno l’impressione di essere molto organici e disordinati, dinamica che, coincidenza, sembra indirizzarsi verso una specifica relazione tra anarchia e organico descritta in alcune teorie degli anni Sessanta a cui mi sto interessando in questo momento. Ma le immagini censurate hanno un senso di frustrazione acclusa che le riguarda… quindi è un po’ come un cerchio, parti da un’immagine molto precisa che si libera per poi raddrizzarsi… uno slittamento costante.
CW: Per alcuni anni sei stato promotore di un evento esclusivo in night club chiamato “Nerd” che, a mio avviso, è molto integrato nella tua pratica artistica per il modo in cui gli artisti come i frequentatori del club davano vita a uno spazio di partecipazione e performativo, con eventi come Thriller di Spartacus Chetwynd o DJ-set di artisti. Che rapporto c’è, nel tuo lavoro, tra la creazione di questo spazio sociale rivolto ad alcune identità alternative e la rappresentazione di movimenti politici?
SP: “Nerd” era una specie di best kept secret. Le persone che venivano lo facevano proprio, e mi dicevano continuamente quanto apprezzassero quella sensazione di comunità ed esclusività. C’era qualcosa di unico, all’interno di quel contenitore sarebbe potuta accadere qualsiasi cosa, come quando Spartacus propose la performance Thriller. Quella notte a un certo punto abbiamo riempito la stanza di fumo e gli “zombie” sono usciti fuori da tutti gli angoli. La gente non aveva assolutamente idea di quello che stava succedendo, perciò il tutto è sembrato veramente anarchico e fuori controllo. Suppongo che i movimenti politici alternativi si impegnino in qualcosa di molto simile, come quell’incontrollabile, esilarante sensazione che provi quando ti senti di poter cambiare il mondo, anche solo per un minuto.
CW: C’è un legame tra l’interesse verso uno “stile” legato alla sottocultura contemporanea e la natura segreta/codificata di queste operazioni storiche?
SP: Vedo queste sottoculture fornire alla società qualcosa di simile a una performance continuamente in progress. Quasi come agenti segreti, performer nascosti che agiscono all’interno delle masse per raggiungere un impercettibile senso di sbilanciamento. A dire la verità, quando penso a queste idee di ribellione, protesta e rivoluzione, non mi immagino lotte eclatanti o guerre violente; è più come una silenziosa ma incisiva infiltrazione temporale di consapevolezza.
CW: Potresti parlare di quella “catena di rimandi” che unisce diversi aspetti del tuo lavoro degli ultimi cinque anni e di come decidi in merito al materiale trovato di cui ti appropri?
SP: Bè, accade organicamente. Penso faccia tutto parte del subconscio, del quale sono un grande sostenitore. Nonostante il mio lavoro possa esteticamente apparire come un vero pensiero concluso, in realtà il più delle volte opero in maniera molto istintiva. Ammetto che questo istinto è solitamente filtrato con molta prudenza, ma come la maggior parte degli spettatori io stesso mi sorprendo di come aspetti diversi del lavoro finiscano per relazionarsi gli uni con gli altri. Non mi impongo di limitarmi a un lavoro che richieda un oggetto trovato, ma a volte mi sento come se fossimo inondati da così tanti stimoli visivi che diventa quasi un inquinamento dell’occhio. Quindi mi sento più incline a riutilizzare una grande immagine che è stata messa da parte o su cui si è sorvolato, quasi come a darle una seconda possibilità.
CW: Le semplici strutture geometriche in MDF che “modulano” la messa in scena delle tue installazioni hanno una relazione con il Minimalismo? Con Robert Morris, per esempio. Prendi in considerazione il loro relazionarsi alla presenza fisica dell’osservatore?
SP: No, non credo ci siano riferimenti specifici a nessun particolare artista, o almeno non nel campo specifico dell’arte. A un certo punto ho avuto la sensazione di aver bisogno di strutture più solide che mi consentissero di avere più flessibilità con gli elementi delle mie installazioni, come le stampe su tela o i loop sonori. Ho iniziato così a disporre queste semplici costruzioni in MDF, le quali, proprio perché leggermente sghembe, non finiscono per essere troppo rigide. Visti i miei interessi nella progettazione in ambito teatrale, sono state poi sistemate quasi per fare in modo che i visitatori performino al loro interno, negoziando marginalmente la loro interazione fisica con esse. Ma, di nuovo, è una combinazione di rigidità e non raffinatezza che mi interessa e che spero generi una tensione interessante nel lavoro.
CW: In che modo la “messa in scena” dell’installazione in galleria si rapporta alle tavole disegnate che derivano dalla tua fascinazione per le riviste del teatro vittoriano, come per esempio The Sketch? C’è un interesse nel potenziale immaginario offerto dallo spazio del “teatro”? Come questo si innesta nei tuoi interessi politici?
SP: Penso che quello che mi affascina sia il potenziale del credere in idee di “falsità”, un po’ come la nozione teatrale o cinematografica della “sospensione dell’incredulità”. Come artista credo molto nel potere dell’immagine, che, ancora, è proprio ciò che molti movimenti politici, specialmente quelli satellite, volevano sfruttare. Nelle mie installazioni c’è il retaggio di un’ispida seppur minimale componente teatrale che le lascia vulnerabili e quindi aperte a un’ispezione più dura. Similmente, oggi noi possiamo guardare e interagire con quelle immagini invecchiate con una conoscenza contemporanea che sfiderà, nel bene o nel male, l’importanza e la validità delle immagini stesse. Mi piace pensare che la narrazione immaginaria possa essere invece uno strumento molto potente, in quanto possiede il potenziale per un sovvertimento reale. In quanto spettatori di qualunque cosa visibile, siamo messi nella posizione di interrogarci sulla realtà, e quell’attimo fragile in cui ci troviamo a dubitarne può essere per la verità molto ispiratore.
CW: Sembra esservi un aspetto “gotico” nella relazione tra natura e cultura, performance live e “mancanza di vita” scultorea e la inusuale qualità dei tuoi disegni a biro/o di certi tuoi tableaux vivant.
SP: Quello che mi interessava, per esempio nelle immagini vittoriane, era il senso di passività che conservavano, che avevo la sensazione di provare a sfidare introducendo quella sorta di interventi tipo disegni “automatici”. Mi piace l’idea che la finzione possa interferire con la realtà, l’unione di arte e vita se preferisci. Psicologicamente c’è qualcosa di terrificante nell’idea che qualcosa di inanimato possa prendere vita, su cui, immagino, molte teorie sul gotico convergono. Sono attratto dal potenziale verso il cambiamento nella dinamica in qualcosa che ha una potenziale “vitalità” ma allo stesso tempo si presenta esanime, per quanto piccolo e a volte quasi inavvertibile il cambiamento possa apparire.
CW: Quali artisti storicamente sono stati importanti per te?
SP: Nonostante ammiri diversi artisti, in genere mi indirizzo più verso quelle persone creative che operano ai margini dell’ambito cosiddetto delle belle arti. Dunque mi sento più ispirato da musicisti come Coil o Current 93, o da figure artistiche a tutto tondo come Alejandro Jodorowsky. Mi piace l’ampio approccio all’intera creazione di un progetto che queste persone hanno, sia esso un disco, un libro o un film. Si ha la sensazione che il significato che sta dietro al loro lavoro possa venire comunicato su livelli differenti, dei quali accade che solo uno sia visivo. Penso, di nuovo, che sia simile a ciò che quei movimenti politici di cui abbiamo parlato prima avessero la sensazione di fare.