Il campo delle arti performative è da intendere come un incontro con tutto il resto, una messa allo scoperto. È quello spazio provvisorio di cui si pensa di conoscere già tutto, ma che in realtà nasconde attitudini, punti di vista, movimenti e corpi impercettibili – “è un tipo di latenza: qualcosa che non si vede ma c’è, qualcosa che non succede ma che sta succedendo comunque.”1 La performatività, con un’apertura radicale verso l’invisibile, attiva un processo quotidiano capace di determinare piccoli mutamenti del reale, insinuandosi nelle crepe tra società e luoghi mai esplorati prima.
Se questo spazio è ancora latente, lo si avvicina con uno sguardo simile a quello di David Foster Wallace in Infinite Jest (1996): rimanendo appena dietro l’angolo, incontrando tutto ciò che abbiamo attorno. Il campo frammentato che si presenta davanti a noi è fatto di relazioni, conversazioni, corpi, pratiche e gesti imprevisti. È un magma fluido e viscoso che attraversa processi complessi e stratificati. Un corpo politico in continua trasformazione, che prende forma, consuma, brucia e decostruisce. Anche se dietro l’angolo, tra visibilità e invisibilità, le arti performative riescono sempre più a farsi spazio nell’immobilità quotidiana, alla ricerca di un vuoto su cui negoziare.
Sara Leghissa – artista indipendente, attivə nel campo dell’arte performativa – lavora tra queste crepe. Attraverso una pratica vandalica queer2, termine preso in prestito dalla teorica Sara Ahmed, avvia conversazioni con comunità spesso marginalizzate mediante affissioni pubbliche. La sua ricerca esplora dinamiche di potere e processi di invisibilizzazione, con un linguaggio articolato tra voce, testo e conferenze-performance. I manifesti diventano gesto nella sfera pubblica, mentre la scrittura si avvicina sempre più al corpo e al vissuto, pronta all’ascolto collettivo. Una pratica vicina a quella che Lea Melandri definisce scrittura di esperienza3: radicare la parola scritta nella storia del corpo, creare un luogo in cui sia possibile mettere in scena il sogno e il suo svelamento.
In Sempre qua siamo (2024), per Supernova, Leghissa ha incontrato persone ospitate temporaneamente presso Casa Don Gallo, un’organizzazione nata nel 2013 in risposta all’emergenza abitativa nel Comune di Rimini. L’artista si immerge nei frammenti dei ricordi e delle vicende personali senza farlo sembrare un esercizio, un laboratorio – perché non lo è. C’è nella gente una geografia intera, che attraverso il suo lavoro riesce a far defluire verso un linguaggio “che viene fuori come una secrezione naturale, come la bava delle lumache, come la tela del ragno, come un porro sulla pelle, o come gli escrementi che ogni giorno evacuiamo.”4
La dimensione collettiva emerge chiaramente anche nel progetto Nobody’s indiscipline – curato in Italia da Sara Leghissa e Annamaria Ajmone – uno spazio di condivisione e di ricerca delle pratiche performative oltre il genere, lo spazio, i luoghi, e in costante ridefinizione; che nella sua inafferrabilità riesce a trovare il modo per oltrepassare reti predefinite e, non solo nell’atto performativo, definire un modo di fare mondo che è politico nella sua diversità.
Chiara Bersani, nella costellazione delle arti performative, è tra le stelle più luminose. La sua capacità di intrecciare dimensioni intime e collettive, personali e pubbliche, fa emergere un corpo politico in perenne dialogo con la società che lo osserva e con lo spazio che lo accoglie. La sua ricerca si estende a luoghi nascosti di riflessione e sperimentazione, tesa a toccare il confine tra immaginazione e realtà; non più come testimonianza di una storia ma entità attraversata da incontri e scontri, che accetta la responsabilità di disegnare l’immagine che il mondo avrà di lei.
Venivo posta in un punto dello spazio, lasciata lì per molto tempo e allora io quel punto lo imparavo a memoria. Non mi orientavo nei sentieri ma conoscevo perfettamente i luoghi di pausa, quiete, ristoro. (Da appunti coreografici di Sottobosco, Chiara Bersani)
In Sottobosco (2023), un gruppo di bambini con disabilità si perde nel bosco, forse inseguendo un amore. Forse il bosco gli è semplicemente cresciuto attorno. È una sopravvivenza alle cose che accadono, quando il tutt’attorno crolla. Bersani si interroga: quali azioni compie un corpo che non può correre nello spazio? Intensificando altri punti di vista, la ricerca sposta il piano di osservazione, trasformando l’orizzonte di chi guarda. Portando lontano da una razionalità di vedute troppo strette, lì dove la luce è fioca e la visibilità diminuisce. Dove nulla luccica ma talvolta qualcosa illumina il mondo.
In astronomia, il termine seeing descrive i fenomeni atmosferici che distorcono la visione degli oggetti celesti, rendendo le immagini meno nitide. Allo stesso modo, le arti performative perturbano la percezione di quello che appare immobile, stabile o chiaro. Creano le condizioni per vedere fuori fuoco, invitando a decostruire immagini perfette e interrogando ciò che è apparentemente nitido. Seeing diventa un modo di osservare che abbraccia complessità e incertezza, trasformando zone d’ombra e interstizi in spazi di negoziazione e intervento. Dove lo sguardo è disturbato, il vedere diventa un atto politico.
Sara e Chiara, attraverso il loro approccio performativo, non svolgono solo un compito di decostruzione (del genere, del sesso, e così via), ma nominano e rendono conto della potenza politica dei corpi nel femminismo, nell’invenzione di pratiche corporee, di gesti imprevisti e travolgenti.5 Trasformano e immaginano un mondo al contrario – in un movimento contro-tempo. Un ritmo che fa sgambetto alle posture rigide e verticali, come quelle istituzionali, hackerandole. Condividono un posizionamento diretto e consapevole, dove tutto può essere riorganizzato e reinterpretato, sia nell’essere visto che nel diventare visibile. Privandoci del potere di osservare le cose come sempre, ci spingono fuori fuoco. Dove resistere non è facile. Invece, Sempre qua siamo.




